L’arte secondo Christo
«Ci rende uomini liberi»

A tu per tu con il grande artista di origini bulgare. «La passerella sul Sebino? Ce l’abbiamo in testa da decenni».

Capo primo, chiarezza sulle generalità: no, Christo non è un nome d’arte scelto per evidenti ragioni di evidente notorietà. È il nome proprio, il primo di Christo Vladimirov Javacheff. Fuggito dalla Bulgaria dell’ex blocco sovietico durante la Rivoluzione ungherese del ’56, passa da Praga ed entra in Austria. Lì, grazie a una notevole arte di arrangiarsi e all’atto di iscrizione all’Accademia di Belle Arti di Sofia che usa - con buona dose di creatività - a mo’ di lasciapassare, ottiene un qualche documento dove la «X» del cirillico diventa la «C» di Christo. E va così, niente furbate col nome.

Trascorsi sessant’anni, raggiunta la notorietà planetaria, di quel «refugee», di quel giovane migrante è rimasto quasi tutto. Sopra a tutto, lo spirito fresco di un ottuagenario con il cuore di un ragazzo. E un’idea dell’arte con cui non è mai sceso a patti.

Qual è?

«Rende liberi. Facciamo (usa sempre il plurale, con lui c’è sempre Jeanne-Claude, la compagna di una vita, morta nel 2009, ndr), facciamo arte perché ci piace, per nessun’altra ragione e con nessun’altra giustificazione. L’arte è questo, la libertà di creare per il puro gusto di farlo, di essere liberi di farlo».

C’è chi obietta. L’Europa terrorizzata, la guerra alle porte di casa, la violenza, tanta povera gente. Voi finanziate un’opera da 10 milioni di euro per il puro gusto di creare bellezza?

«Siete troppo giovani» (E raccoglie un po’ di pazienza per accennare, solo accennare, lasciando solo intravedere da dove viene e che cosa ha attraversato per potersi permettere di vivere da uomo libero).

«Quando non c’è stata violenza nella nostra storia? Quando non le guerre? La violenza, la lotta per il potere, sono connaturate all’uomo. Quel che sta accadendo è sempre accaduto, accadrà sempre. Così come l’arte c’è sempre stata e ci sarà sempre. A ricordarci che, in qualsiasi caso, l’uomo è anche altro. La violenza e la brutalità convivono con il desiderio di bellezza e di libertà».

Per questo non avete mai accettato sponsor? È vero che avete rifiutato, tra le tante proposte, anche un milione di dollari da una tv giapponese per fare da testimonial a qualcosa?

«Abbiamo scelto di essere liberi. Il capitalismo si regge, anche, sul fatto di poter dare un valore economico a tutto. Qualcosa, però, non deve averlo, deve avere un’altra funzione. Deve poterci permettere, appunto, di sapere che siamo dentro un sistema ma che possiamo anche scegliere gesti di libertà, di irresponsabilità, di inutilità, bellezza. Non si può definire con parole definitive il senso dell’arte».

C’è chi dice che «The Gates», l’installazione allestita al Central Park nel 2005 ha segnato la rinascita di New York dopo l’ecatombe dell’11 Settembre. Allora è questa la funzione dell’arte?

«Non so, non esageriamo su The Gates. A quell’opera abbiamo lavorato per decenni. E insieme a noi anche il destino. Così a un certo punto tutto s’è compiuto».

E per così poco tempo, pochi giorni per così tanta meraviglia. Le sue opere sono effimere. La passerella giallo dalia resterà allestita solo 15 giorni, dal 18 giugno al 3 luglio 2016. Basterà?

«Non è la passerella sul lago d’Iseo l’opera d’arte, non sono gli ombrelli in California o i cancelli come a New York. Questi sono solo alcuni dei suoi componenti. È la relazione che si crea con tutti gli elementi che stanno attorno, le montagne, il luogo, il clima, l’acqua, la stagione, la luce. E che nasce snodandosi tra prove tecniche, la costruzione del team che lavora con noi, la gente che incontriamo nei lunghi anni di preparazione, le relazioni, l’andare e tornare per visitare e vivere i luoghi, il lavoro in studio che sviluppa una visione, i disegni, gli schizzi, l’idea che nasce e che vedrà davvero la luce alla fine di un lungo percorso, di un viaggio che è anche una grande condivisione. È tutto questo. E non ha un valore stimabile, così nessuno pagherà un biglietto per vivere quest’opera, a nessuno vengono chiesti soldi e noi pagheremo fino all’ultima persona che lavorerà per noi anche per The Floating Piers, finanziando tutto con la vendita del disegni, dei bozzetti, dei modelli. Il nostro denaro lo spendiamo così, liberamente».

Lei dice «vivere» l’opera d’arte.

«Non è da guardare come un dipinto o toccare come una scultura. È diverso, è un coinvolgimento. Un’esperienza. E dura poco perché nasce così. La vogliamo così. O ci sei nel tempo che sta o non ci sei».

E cosa resta, dopo?

«Resta il ricordo».

Il nostro lago non sarà più lo stesso. Arriverà qui mezzo mondo. Le sue opere muovono masse.

«Noi non facciamo pubblicità...». (E sorride con quest’aria da ventenne, che spiazza e costringe continuamente ad aggiustare il tiro...).

Nella storia dell’arte come si colloca la vostra opera?

«Non ci ho mai pensato... La cosa più importante per me è essere in salute. Mi piace così tanto fare quello che faccio che vorrei continuare a farlo. Mi piace quello che faccio. Lo amo, incontrare la gente, parlare con loro. Non ho mai pensato a come ci collochiamo...».

Fuori, sul lago, prende vita la passerella e le barche dello staff vanno avanti e indietro. Il tempo va e comincia a stringere, prima del 18 giugno c’è tantissimo da fare. Il lago si sta preparando a suon di tavoli, riunioni tecniche, booking, caccia alle ultime stanze d’albergo, un lavorio pazzesco. Una gestazione».

Dove sarà, lei, in quei giorni?

«Qui, qui in giro, da qualche parte. Sulle montagne, sulle strade del lago, sulle barche, sarò qui anch’io». Per vedere l’effetto che fa.

© RIPRODUZIONE RISERVATA