Vincono freddo e vento Moro abbandona

Non è sempre fortunato Simone Moro in inverno. Anzi. Nel 1997, proprio alla fine di dicembre, si era consumata la tragedia sull’Annapurna Fang, dove l’alpinista bergamasco, travolto da una valanga, perse il suo compagno di cordata, Anatoli Boukreev. L’anno prima era stato costretto, sempre assieme a Boukreev, a interrompere la traversata Everest-Lhotse. E, a dispetto dei numerosi successi (basti citare la prima al Marble Wall in Thien Shan nel 2001 o quella al Vinson in Antartide nel 2002), la buona stella non sembra averlo accompagnato fino in fondo nemmeno quest’anno.

Le temperature (anche ieri meno cinquanta) e in più raffiche di vento che sfioravano i 150 chilometri orari gli hanno impedito, infatti, di sferrare il secondo attacco allo Shisha Pangma, l’ottomila (per l’esattezza 8.027 metri), con cui, da un paio di mesi, si sta confrontando lungo il versante tibetano. E così, dopo la notte trascorsa al campo due (7.100 metri), assieme al polacco Darek Zaluski, lo scalatore bergamasco ha deciso di rientrare: prima al campo base e quindi a Katmandu. Da qui raggiungerà l’Italia nei prossimi giorni: era partito ai primi di dicembre.

«Purtroppo le condizioni atmosferiche non hanno giocato a nostro favore – racconta dal campo base –, davvero un peccato perché siamo andati vicinissimi alla meta che era a portata di mano. Resta la soddisfazione per aver percorso la Via Figueras, aperta nel 1995 e mai ripetuta: siamo i primi uomini ad averla affrontata in inverno, nonostante il freddo e il buio imminente ci abbiano costretto a fermarci a 7.700 metri di quota. Si è trattato di un lavoro complicato: solo io ho dovuto attrezzare 1.600 metri di corde fisse, lavorando quasi sempre con appigli di pochi centimetri, su un terreno completamente ghiacciato e trasportando bobine di corda molto ingombranti. Il congelamento all’indice della mano destra? Va meglio è di primo grado e non dovrebbe comportare alcuna conseguenza».

Niente di grave, fortunatamente.

Ma i rischi, purtroppo, non sono mancati. Quando, nella notte tra venerdì e sabato, Moro è uscito dalla sua tenda a 7.100 metri assieme all’altro polacco, l’alpinista Piotr Morawski, il freddo era talmente intenso che i due hanno dovuto fare ritorno dopo soli 400 metri di ascensione: «Non sentivamo più né mani né piedi e siamo stati costretti a rientrare in tenda per scaldarci col fornello», hanno raccontato poi. E difatti anche il secondo tentativo, sferrato qualche ora dopo e conclusosi sulla cresta dello Shisha a 400 metri dalla vetta, ha lasciato il segno: principi di congelamenti per tutti e due gli scalatori. Piotr è dovuto tornare al campo base, mentre Moro si è fermato a quota 7.100.

L’inverno raddoppia le difficoltà sugli ottomila.

Non è un caso che nessun italiano abbia mai conquistato una di queste montagne nella brutta stagione e non è un caso nemmeno che le uniche sei ascensioni completate finora portino la firma di alpinisti dell’est. Due su tutti: Krzysztof Wielicki (sull’Everest nell’82, sul Kangchenjunga nell’85 e sul Lhotse nell’88) e Jerzy Kukuczka (sul Kangchenjunga nell’85, sull’Annapurna nell’87 e sul Lhotse nell’88). «I protagonisti sono sempre stati loro – ribadiva Moro prima di partire dall’Italia lo scorso dicembre – l’alpinismo occidentale, così ricco di mostri sacri, non ha mai lasciato il segno sulle cime himalaiane di ottomila metri nel periodo invernale». Lo stesso scalatore bergamasco ha tentato di infrangere la "regola", ma lo Shisha anche questa volta ha detto no.

(19/01/2004)

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