Coldiretti, il re dell’agricoltura passa lo scettro

Coldiretti, il re dell’agricoltura passa lo scettroFrancesco Mapelli, presidente da 22 anni, non si ricandida: ho bisogno di tempo per guidare l’Ersaf

Mapelli lascia. L’annuncio è di quelli che fanno notizia. Il presidente provinciale della Coldiretti, 56 anni, sposato e padre di due figli, titolare con un nipote di un’azienda agricola a Calvenzano, è in carica da ben 22 anni. «Non mi ripresenterò in occasione del rinnovo delle cariche sociali all’inizio del 2004», ha detto ieri, lasciando di stucco chi lo considerava inamovibile e quasi eterno. Ma, come tutte le cose di questo mondo, anche il ventennio mapelliano sta finendo e in Coldiretti si apre la «guerra di successione».

La vecchia guardia perde il suo uomo-simbolo, i giovani scalpitano, la poltrona è comunque ambita e non mancano le tensioni che caratterizzano, in genere, le fasi di transizione.

Mapelli, che fa, molla?

«Non mi ripresento. Il mio lungo percorso all’interno della Coldiretti è finito. Nel febbraio scorso la Regione mi ha nominato presidente dell’Ersaf. L’etica della rappresentanza mi impone questa scelta. A fine anno scade l’attuale Consiglio e alla Coldiretti serve un presidente che metta tutto il suo impegno a tempo pieno. Io non posso più farlo. Ho di fronte altre sfide, un ente importante, con trecento dipendenti, che ha assorbito l’attività di altri cinque enti».

C’è incompatibilità?

«È un impegno che passa sopra le diverse organizzazioni agricole. Bisogna essere "super partes" e dunque è meglio che non ci sia confusione. Il presidente dell’Ersaf rappresenta tutto il mondo agricolo».

Sì, però tutta la sua vita ha l’impronta della Coldiretti. E adesso, cosa succederà nella sede di via Mangili?

«La Coldiretti continuerà a fare quello che ha sempre fatto: essere al servizio dei suoi soci. È un organismo democratico e saprà scegliere i dirigenti adatti».

Il suo delfino chi è?

«Non ho delfini né figliocci. La Coldiretti ha bisogno di persone capaci e responsabili».

Ce ne sono?

«Ritengo che ce ne possano essere».

Dicono che la situazione interna sia tutt’altro che serena: invidie (anche nei suoi confronti), giovani in carriera, iscritti che calano, «valzer» di direttori in pochi anni, situazione finanziaria delicata. Cosa c’è di vero?

«I nostri valori sono quelli di sempre: la dottrina sociale della Chiesa, un’economia gestita dagli uomini e non viceversa, l’attenzione ai bisogni dei soci. I giovani capiscano che devono riconoscersi in questi ideali. L’associazione non è affatto in crisi, anzi ha cercato di adeguarsi ai tempi, che sono comunque caratterizzati da una crisi del comparto, se si pensa che negli ultimi dieci anni nella Bergamasca le aziende agricole sono calate del 42% (e in montagna del 60%) e che due terzi degli agricoltori hanno più di 65 anni. Sui direttori, bisogna dire che all’interno di un’associazione nazionale bisogna accettarne anche le regole. Quanto alla gestione finanziaria, posso dire che è corretta».

Certo, non è più la Coldiretti di una volta. Come è cambiata nei 23 anni della sua presidenza? E come è cambiato il mondo rurale?

«All’inizio prevaleva ancora la fase, iniziata nel dopoguerra, dell’incremento produttivo di tipo quantitativo. Da qualche anno c’è un’inversione di tendenza, non si guarda più alla quantità ma alla qualità, alla tracciabilità, alle esigenze dei consumatori con i quali bisogna stringere un’alleanza molto più stretta di una volta. L’agricoltura deve diventare qualitativa e multifunzionale. Alcuni agricoltori mi ridono in faccia quando dico che oltre al latte bisogna imparare a produrre anche l’acqua calda. Ma in Germania, gli agricoltori, utilizzando il mais e i liquami, vendono addirittura elettricità! Ecco, bisogna adattarsi a un nuovo modello di agricoltura».

Anche da un punto di vista politico sono mutate le cose, no?

«Una volta c’era la Dc, certo, con la quale avevamo uno stretto rapporto. Ma non si vive di rimpianti e non si può tornare indietro nel tempo. Oggi la Coldiretti è autonoma rispetto ai partiti e deve esercitare un’influenza di tipo lobbistico (nel senso buono) sulla politica. Ecco perché all’interno dell’associazione occorre nuova linfa».

Il momento peggiore della sua presidenza?

«Quando sono venuti avanti i Cobas del latte. Avremmo dovuto avere più coraggio e affrontare la situazione con maggiore determinazione. Ma non sono mancati altri gravi problemi: mucca pazza, l’influenza aviare, le aflatossine. Non sono stati anni facili».

Da decenni si insegue il sogno di un’unione tra le diverse organizzazioni sindacali agricole. Adesso che sta lasciando, dica chiaramente che è un’utopia…

«Non ho mai "coltivato" l’idea di un sindacato unico. Se mi dicono che c’è un sindacato unico, la prima cosa che faccio è costituirne uno nuovo. Per me le differenze sono una ricchezza. Ho sempre detto che si possono costruire unità di intenti su progetti comuni».

Voci maliziose dicono che i coltivatori della Bassa, dopo l’iniziale rivolta, oggi guarderebbero con più simpatia a opere come la Brebemi o l’Alta capacità ferroviaria, visto l’apprezzamento dei loro terreni in seguito all’arrivo delle due grandi opere…

«Queste infrastrutture determinano solo disagi per gli agricoltori. Il valore dei terreni non aumenta, semmai diminuisce, in particolare per i proprietari che si vedono tagliare in due i campi da autostrada e binari».

Lei ne ha visti passare tanti, ma qual è stato secondo lei il miglior ministro dell’Agricoltura? Non dica Pandolfi solo perché è bergamasco…

«Dico Pandolfi e non per motivi affettivi o patriottici. Anche se molti lo criticano, secondo me è stato un buon ministro. Non è stato un momento facile nemmeno il suo e ha avuto il merito di traghettare l’agricoltura italiana in Europa».(17/11/03)

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