A Genova la sfida
della modernità

È necessario usare una chiave di lettura razionale nel giudizio sulla tragedia di Genova perché occorre almeno riequilibrare il rigurgito di emotività che ha immediatamente riempito il web di rabbia e giustizialismo, pur in assenza di qualsiasi analisi motivata e seria, anche necessariamente severa, su cause e responsabilità. E allora, alzando lo sguardo sopra il polverone di un dibattito miserando, alimentato purtroppo dall’alto, al centro di tutto si può cogliere un dato sostanziale, e cioè che questa vicenda pone il problema della modernità e dei suoi avversari. Se arretrare, cioè, o accettare la sfida. Nel caso del ponte Morandi è in discussione il rapporto fra traffico e infrastrutture, profondamente cambiato sia in termini di qualità che di quantità.

Con l’imperativo di risolverlo con preveggenza, purché non con la «favoletta» grillina che comunque il ponte non sarebbe mai caduto, pur di negare alternative indispensabili già vent’anni fa. Ma è solo il caso più evidente. In mille altri (lavoro e innovazione ad esempio) c’è un conflitto simile. Merito del grillismo della prima ora è stato quello di parlare con sincerità di «decrescita felice». La consideriamo aberrante, la sconfitta finale delle classi più deboli, la negazione della modernità, ma non è meno grave che manchi chi sappia schierarsi razionalmente con l’opposto, la «crescita felice», obiettivo ben più difficile, perché il primo richiede solo dei no e il secondo obbliga alla fatica dei sì giusti.

Il tema è decisivo da quando il primo partito italiano è diventato proprio quello della decrescita, e sarebbe surreale affidarsi solo al contrappeso, per ora inesistente, della concretezza padana. L’anomalia è che con i 5 Stelle abbiamo un partito «al» governo, ma non «di» governo, intendendo per tale chi interpreta le complessive esigenze del Paese, con la scomodità di rinunciare almeno alla strumentalizzazione più becera nel momento stesso in cui si rimuovono ancora le macerie.

L’atteggiamento prevalente nell’opinione pubblica, è indulgente e attendista, e non incide infatti sui sondaggi. Prevale l’effetto Raggi. Sarà anche pasticciona, ma le viene dato il beneficio della buona fede. Entro certi limiti, l’incompetenza non fa danni gravi. Fa ancora sorridere che l’attuale ministra del Sud dica che il Pil cresce non per la ripresa, ma per il caldo, o che la Tap non si deve fare perché lei non metterebbe l’asciugamano su una spiaggia percorsa 30 metri in profondità da un tubo di 40 centimetri che pur servirebbe a evitare la dittatura energetica di Putin. O della parlamentare che ipotizza una tassa piatta ma con tre aliquote, o dello strepitoso ossimoro dei vaccini obbligatori ma flessibili. Ben più inquietante è invece la componente ideologica, alimentata dalla convinzione che il voto ottenuto non sia un misuratore di consenso pro tempore ma la conferma della verità: è la «dittatura della maggioranza» descritta nell’800 da Tocqueville o, per stare con Manzoni, il «senso comune» che intimidisce il «buon senso». Se la maggioranza pensa che la peste è diffusa dagli untori, questa è verità.

Èideologia quella che fa dire a Di Maio che i ponti cadono perché Benetton finanzia i governi altrui, o che suggerisce a Toninelli che non si deve fare la Tav, perchè è una «mangiatoia». O quella sempre di Di Maio che cita senza rispetto (anche verso famiglie bergamasche) la tragedia di Marcinelle come la prova che non bisogna emigrare. Non è di governo, ma solo al governo un partito che riduce tutto a complotti, macchinazioni. E ruberie. Vale per Benetton, ma anche quando il presidente della Repubblica non accetta imposizioni e va messo in stato d’accusa. Quanto all’Europa, meglio attaccarla a futura memoria, quando impedirà di dissipare il risparmio degli italiani.

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