Austerità, l’Italia
alla prova di forza

La lettera di Bruxelles sta per essere recapitata al portone di Palazzo Chigi ma il governo italiano ha deciso di «fare niente», per usare l’espressione di Angelino Alfano, ministro di peso e leader del secondo partito della coalizione. «Fare niente», più o meno ciò che il suo presidente del Consiglio Matteo Renzi va sbandierando di fronte ad ogni telecamera o taccuino. Di più, quello che ha affermato, nella intervista più dura della sua vita, addirittura Pier Carlo Padoan, il ministro dell’Economia autorevole e ragionevole, duttile nella sostanza e morbido nei toni.

Tutti insieme a dire che Roma fa spallucce anche se da Bruxelles si sente il brontolio del tuono junkeriano e il commissario Moscovici spedisce a via XX Settembre, sede del Tesoro italiano, i suoi tecnici-controllori.

Una prova di forza, non c’è dubbio. «Non ci faremo spiegare da qualche tecnocrate che non possiamo ricostruire le case di Amatrice o mettere in sicurezza le scuole dei nostri figli» va ripetendo Renzi rispondendo alla Commissione che non considera legittime le spese in deficit per il cosiddetto «Piano Casa Italia» destinato alla ristrutturazione delle scuole, delle case e degli edifici pubblici delle zone sismiche. La domanda è: funzionerà questa inedita tattica muscolare adottata dai governanti italiani? Negli anni noi siamo sempre andati a Bruxelles con l’aria di chi, per indole mediterannea, non riesce proprio a rispettare con ordine e per tempo le dure regole del Nord, dei Paesi severi e costumati. L’incubo dei compiti da fare a casa, per usare le parole di Angela Merkel, ci perseguita. Ci sono stati presidenti del Consiglio e ministri dell’Economia andati a trattare a Bruxelles con l’aria dolente di chi, pur condividendo le reprimende dei Paesi ordinati, è costretto a rappresentare un Paese meridionale e inaffidabile per il quale chiede comprensione, come gli avvocati delle cause perse. Altri hanno giurato di aver battuto i pugni sul tavolo anche se nessuno ha mai loro creduto. Altri ancora si sono adeguati e basta, obbedendo e allargando le braccia. Adesso è la prima volta che qualcuno di Roma alza la voce e non si toglie il cappello.

Renzi assume questo tono sferzante che tanto irrita Juncker perché è in campagna elettorale per il referendum, perché ha bisogno di spendere per smuovere il treno della crescita, e perché la famosa lettera che stiamo aspettando sarà recapitata ad altri cinque partner tra cui addirittura la Francia (che, come la Spagna, sfora allegramente e ben più di noi il rapporto deficit-Pil senza troppo curarsene). Ma soprattutto Renzi sa che in Europa tutto si possono augurare tranne che lui perda il referendum, il suo governo si indebolisca e si spiani la strada ad un governo di grillini. Finora l’unica forza populista che è arrivata al tavolo dei Berlaymont è stata Syriza, ed è stata velocemente domata. Ma se domani si presentassero i grillini, la Le Pen, i Podemos, che succederebbe?

Dunque la Commissione «deve» aiutare i governi moderati che lavorano per la crescita e stanno stretti nelle maglie dell’austerità che fa crescere il disagio sociale e dunque la protesta populista. Il guaio è però che la Commissione deve anche salvare se stessa, la propria credibilità e quella delle regole comunitarie di fronte ai Paesi intransigenti del Nord (che tuttavia hanno anch’essi i loro problemi come sa bene Angela Merkel alle prese con i para-nazisti di Afd).

Dunque per il momento stiamo tutti battendo il gladio sugli scudi facendo la faccia dell’arme. Come andrà a finire lo vedremo solo dopo il referendum.

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