Brexit, ora i muri
sono in fabbrica

Dopo la Svizzera, ecco la Gran Bretagna. Al grido di «British first», prima gli inglesi, ecco che la ministra degli Interni britannica Amber Rudd (peraltro contraria alla Brexit in campagna elettorale) annuncia vere e proprie «liste di proscrizione» per gli stranieri che lavorano nel Regno Unito. Il Governo infatti intende chiedere alle imprese britanniche di rivelare il numero di dipendenti stranieri per favorire l’assunzione di sudditi di Sua Maestà.

Ci saranno dunque delle quote di stranieri per l’assunzione delle aziende. In pratica, i muri ai confini calano anche tra i capannoni delle fabbriche o negli uffici delle aziende. Se volevate un esempio di cosa significa l’Europa senza Unione Europea Mrs Amber Rudd ce l’ha data. L’Unione infatti si basa sul libero scambio di merci, capitali, imprese e soprattutto lavoratori. E invece in poco tempo dalla famigerata direttiva Bolkestein, quella dell’idraulico polacco che poteva installarsi nel Paese europeo con le sue tariffe ribassate e concorrenziali, alla faccia dei lavoratori del Paese ospitante, siamo finiti al suo opposto, ovvero alle liste nere e ai divieti per chi vuole andare in un altro Paese a lavorare. Il che potrebbe far scattare un gioco di veti reciproci da Paese a Paese.

Naturalmente la ministra, che poi ha fatto anche una parziale retromarcia, mette le mani avanti, come sempre quando si adottano questi provvedimenti: «Non chiamatemi razzista o xenofoba». Forse Mrs Rudd non è razzista, ma come si fa a non definire xenofobo un provvedimenti del genere?

La decisione di Westminster non gode di grande popolarità anche tra gli stessi sudditi britannici. Gli imprenditori rivendicano il diritto di assumere il meglio per le proprie aziende, senza differenza di passaporto e persino i deputati tories sono molto perplessi e definiscono la decisione «controversa». È indubbio che questo provvedimento influirà sulla «tendenza» degli imprenditori ad assumere personale straniero. Ed è sorprendente che tutto questo avvenga in un Paese che è considerato la patria del liberalismo e del libero scambio da almeno tre secoli. La ministra si è giustificata accusando le aziende di sfuggire alle loro responsabilità non addestrando un numero sufficiente di lavoratori britannici e ha aggiunto che andrebbe potenziato il sistema che pubblicizza i posti disponibili nel regno Unito. Secondo la Rudd l’attuale sistema non dà alle aziende «un chiaro incentivo» a considerare correttamente i meriti dei candidati britannici e a spendere di più per addestrarli a fare i lavori di cui hanno bisogno. E ha aggiunto di essere pronta a «rivelare i nomi e puntare il dito» contro quelle società che non dovessero rispettare i nuovi vincoli.

È questa la via inglese contro la disoccupazione? Gli economisti e gli imprenditori dicono di no. Il capo dell’associazione imprenditoriale ha per esempio sostenuto che è naturale rivolgersi prima ai locali che agli stranieri nel proporre posti di lavoro, ma che nel terzo millennio è assurdo non poter ricorrere a professionalità straniere per un mercato del lavoro così complesso, specifico e diversificato come quello attuale. Dunque la decisione di Westminster paradossalmente potrebbe danneggiare l’economia anziché aiutarla. Persino il deputato conservatore Neil Carmichael ha esortato il compagno di partito Amber Rudd a «rivedere questa preoccupante politica» poiché «la gente che viene nel Regno Unito per lavorare duramente e che paga le tasse e contribuisce alla nostra società dovrebbe essere celebrata e non rimproverata. Questa è un tipo di politica che divide la società e che non può avere spazio nella Gran Bretagna del XXI Secolo».

Sul piano politico invece stiamo semplicemente assistendo alla dissoluzione dell’Europa, poiché è probabile che qualche Stato membro dell’Unione, soprattutto a Est, proporrà soluzioni analoghe ispirandosi alla signora Rudd. In un gioco di ritorsioni e veti, come detto, che finirà per trasformare il mercato del lavoro europeo in una somma di orticelli grandi e piccoli.

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