Caso marò: un’altra
sconfitta umana

Il pronunciamento del Tribunale internazionale del mare di Amburgo sul caso della Enrica Lexie e sulla sorte dei fucilieri di marina Massimiliano Latorre e Salvatore Girone non ha certo soddisfatto tutte le aspettative, ma va ugualmente accolto come segnale per un cauto ottimismo.

L’Italia aveva chiesto a questo Tribunale in sostanza tre cose: imporre il ritorno a casa di Girone, da tre anni e mezzo (la sparatoria in cui morirono due pescatori indiani risale al 15 febbraio 2012) agli arresti in India senza processo; ottenere che Latorre, trasferito in via provvisoria in Italia nel settembre 2014 dopo essere stato colpito da un’ischemia, possa restare a casa in via definitiva; togliere all’India, che in questi anni non è nemmeno riuscita a istruire un processo, qualunque potestà giudiziaria sul caso.

La sconfitta più cocente, per l’Italia, è arrivata dal punto di vista umano. È crudele che Girone non possa riabbracciare la famiglia, è assurdo che Latorre debba dipendere da «permessi» rinnovati di sei mesi in sei mesi, l’ultimo nello scorso luglio. Questo è indubbiamente un boccone amaro, perché l’iniziativa italiana ad Amburgo mirava con ogni evidenza a tagliare i tempi proprio su questo punto. Dal punto di vista del principio, e del futuro della causa, ha però ragione il ministro degli Esteri Gentiloni nel manifestare una cauta soddisfazione. Da ieri l’India, che ha fatto del rinvio e del ritardo un’arma di pressione nei confronti del nostro Paese, non può più fare nulla né prendere alcun provvedimento. E, soprattutto, non può più decidere a piacimento i tempi della intricatissima vicenda.

Non è quindi esatto dire, come pure qualcuno ha fatto, che il Tribunale di Amburgo ha deciso di non decidere. Al contrario, ha legato le mani alle parti («…devono sospendere ogni iniziativa giudiziaria in essere e non intraprenderne di nuove che possano aggravare la disputa») e ha designato come sede di ogni giudizio definitivo la Corte arbitrale dell’Aja, unico organismo deputato a decidere, sulla base della Convenzione sul diritto del mare dell’Onu, chi avrà legittima giurisdizione sul caso. Libera, la Corte, anche di modificare o rovesciare le determinazioni prese ad Amburgo.

La disputa, com’è ovvio, è complessa: proprio alla Convenzione sul diritto del mare, e in particolare al concetto di «zona contigua» che essa prevede (il tratto di mare fuori dalle proprie acque territoriali in cui però uno Stato ha ancora il diritto di far valere le proprie leggi e norme e perseguirne le violazioni) fa riferimento l’India nel voler perseguire Latorre e Girone.

Mentre l’Italia richiama le convenzioni internazionali e le risoluzioni dell’Onu sulla lotta alla pirateria per considerare i due fucilieri di marina personale militare in servizio su territorio italiano, in quel caso costituito dalla nave. Le procedure dell’Aja, inoltre, non potranno certo essere fulminee.

Ma il vero senso della sentenza del Tribunale di Amburgo sta nell’infamante rimprovero che esso rivolge a due Stati come India e Italia che, pur avendo collaudate relazioni diplomatiche e commerciali, non riescono ad affrontare una disputa grave ma che in alcun modo può trasformarsi in una simile crisi di rapporti. Sembra di essere tornati all’Ottocento, quando ogni divergenza era un affronto, lavato dagli individui con i duelli e dagli Stati con le spedizioni militari. Per fortuna non è più così, anche se l’India ha voluto farne a ogni costo un caso di orgoglio nazionale da difendere. Ora, per fortuna, se ne occuperà la Corte dell’Aja. Con il grande rimpianto, da parte nostra, di aver tardato anni a farvi ricorso.

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