Chiesa, più comunità
e meno gerarchia

Il Sinodo si è concluso. Ha discusso a lungo di famiglia, di crisi della famiglia, del cosa fare per arginare la crisi e per capirla. L’attenzione dell’opinione pubblica si è concentrata sui temi «caldi» della riammissione dei divorziati e risposati ai sacramenti e sull’atteggiamento della Chiesa verso gli omosessuali. Il Sinodo ha detto no al matrimonio degli omosessuali. Non poteva essere diversamente, ma ha ribadito comunque la necessità di un atteggiamento di comprensione nei loro riguardi. Sulla riammissione dei risposati ai sacramenti si è parlato di scarto di un solo voto.

Vero. Ma di un solo voto riguardo alla maggioranza dei due terzi richiesta. Dunque i due terzi dei padri sinodali è d’accordo sull’apertura. Non è poco, mi pare. Su questo problema alcuni commenti della prima ora hanno parlato della classica montagna che ha partorito il topolino. Il «discernimento» che viene chiesto ai confessori viene già praticato e molti preti fanno già da tempo quello che adesso il Sinodo consente ufficialmente di fare. E questo renderebbe pleonastica la decisione del Sinodo. Ora, supponiamo pure che la prassi «comprensiva» verso divorziati e risposati sia già ampiamente praticata. La Chiesa ne prende atto e la accoglie. Non è cosa da poco, questa. Suppone, in effetti, una certa, impegnativa idea di Chiesa che non è un vertice che decide per tutti. Al contrario, la Chiesa appare una comunità viva che fa le sue scelte nelle parrocchie, nelle comunità di base, dove i problemi della gente si sentono e scottano. Il Papa, i vescovi, prendono atto, ci pensano, decidono e accolgono. In fondo, l’immagine di una Chiesa più comunità e meno gerarchia è stata riaffermata, anche in questa vicenda.

Non è la prima volta che capita. E non è la prima volta che capita a proposito del sacramento della confessione, dove, adesso, si dovrà esercitare il «discernimento» sulle situazioni dei singoli penitenti. La storia della penitenza ci racconta di cambiamenti colossali avvenuti nella prassi di questo sacramento. Nei primi secoli la penitenza era pubblica, riguardava solo alcuni gravi peccati e si poteva celebrare una sola volta nella vita («Sant’Agostino non si è mai confessato», ha detto qualcuno: e probabilmente è vero). A partire dal sesto Secolo la confessione da pubblica diventa privata, il confessore non è più il vescovo ma il semplice sacerdote e ci si può confessare più volte. La nuova prassi si afferma dapprima nei monasteri dell’Irlanda e poi si diffonde in tutta Europa. Dunque una prassi «di base», di una chiesa particolare è stata recepita dalla Chiesa. La storia, certamente, è molto più complicata, ma è interessante notare che qualcosa di simile a quello che sta succedendo in questi giorni è già successo.

Semmai c’è da notare, sempre se le prime notizie sono vere, che non ci saranno percorsi «penitenziali» pubblici, ma soltanto discernimento privato. Tutto torna nel confessionale e i drammi personali restano tali anche quando si confrontano con la Chiesa, la necessità del perdono e la partecipazione all’Eucarestia. Questo stile, se confermato, ha il vantaggio del massimo rispetto, ma anche qualche svantaggio. Il giudizio su situazioni complesse è affidato alla sensibilità di un prete e dei penitenti. I preti sono uomini e hanno le loro idee, le loro sensibilità, i loro limiti. I penitenti, essi pure, sono uomini e donne, con le loro sensibilità, i loro affetti, le loro storie, spesso complicate e dolorose. Questi mondi così diversi e così complessi devono incontrarsi e far trasparire, dalla loro complessità, il desiderio di essere perdonati, da una parte, e la misericordia, dall’altra. Da notare poi: la misericordia che deve trasparire è quella di Dio e non quella del penitente. Insomma, una bella scommessa.

«Ma ci possiamo consolare», mi dice un amico prete che ama i paradossi: «Non c’era la corsa al confessionale prima del Sinodo, non ci sarà dopo». Un evento di Chiesa, insomma, che interessa solo chi sta dentro la Chiesa e che crede sia alla Chiesa, sia alla misericordia e al perdono.

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