Costituzione e razza
Un monito: mai più

Hanno fatto discutere le parole in libertà di Attilio Fontana, candidato alla presidenza della Regione Lombardia, sull’immigrazione che metterebbe a rischio l’esistenza della «nostra etnia» e della «nostra razza bianca», fino a poter determinare la cancellazione della «nostra società». Al di là delle schermaglie da campagna elettorale, la riappropriazione del lemma «razza» ha suscitato forti reazioni, quasi si trattasse della violazione di un interdetto. Per la verità lo stesso Fontana ha riconosciuto l’errore, non prima però di aver tentato una goffa difesa, riconducendo alla Costituzione la legittimità dell’uso del termine.

In effetti, l’art. 3 della Costituzione, scolpendo il principio di uguaglianza, riafferma la «pari dignità sociale» dei cittadini «senza distinzione di sesso, di razza, di lingua, di religione, di opinioni politiche, di condizioni personali e sociali». La Costituzione usa dunque la parola «razza» con il significato di una sorta di interdetto, di un «mai più» pronunciato dinanzi alla tragica lezione della storia. Già in Assemblea costituente, non era mancato chi (il Dc Cingolani) aveva chiesto la sostituzione della parola razza con una meno pregiudicata (stirpe).

E tuttavia il comunista Laconi aveva respinto questa proposta, «perché in questa parte dell’articolo vi è un preciso riferimento a qualche cosa che è realmente accaduto in Italia, al fatto cioè che determinati principî razziali sono stati impiegati come strumento di politica ed hanno fornito un criterio di discriminazione degli italiani, in differenti categorie di reprobi e di eletti. (…) Il fatto che si mantenga questo termine per negare il concetto che vi è legato, e affermare l’eguaglianza assoluta di tutti i cittadini, mi pare sia positivo e non negativo». E Ruini, presidente della Commissione dei 75, pur affermando di comprendere «che vi sia chi desideri liberarsi da questa parola maledetta, da questo razzismo che sembra una postuma persecuzione verbale» ebbe a dire che «è proprio per reagire a quanto è avvenuto nei regimi nazifascisti, per negare nettamente ogni diseguaglianza che si leghi in qualche modo alla razza ed alle funeste teoriche fabbricate al riguardo, (…) che — anche con significato di contingenza storica — vogliamo affermare la parità umana e civile delle razze». La parola insomma doveva restare come un perenne monito, una sorta di monumento verbale chiamato a ricordare ciò che è stato e mai più deve ripetersi. Questo è il senso in Costituzione. Ma, al di là del termine infelice, è l’approccio alla questione immigrazione che quelle parole rivelano a stridere con la Costituzione. Se condivisibile è l’approccio alle migrazioni come fenomeno che deve essere governato, secondo una gradualità non massimalistica, ciò che va contro la Costituzione è l’idea della «nostra» etnia, della «nostra» società, oltre che della «nostra» razza bianca: la questione migrazione è infatti irrigidita entro uno schema identitario, noi/loro, che isola il diverso in quanto tale.

La necessità del governo delle migrazioni nasce invece da un’esigenza opposta: proprio perché l’identità scaturisce e incessantemente si plasma solo entro una relazione e dei legami, va promossa la gradualità dell’incontro, perché la relazione non sia pregiudicata da una comprensibile paura o da un senso di minaccia. L’opposizione allo jus soli, e cioè al conferimento della cittadinanza a persone già inserite da tempo nella trama della società e della cultura, conferma che non si tratta solo di una parola sfuggita, ma di un approccio per «razze», per cui la diversità va tenuta fuori dalla porta della cittadinanza. Un’ultima cosa: questa vicenda rivela quanto appannati siano, nonostante i retorici richiami, i principi costituzionali. Avventurarsi in questo clima di disorientamento valoriale in una Assemblea Costituente mi pare proprio un’idea malsana.

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