Crisi e governo,
una lezione

La crisi di governo che si è appena conclusa è stata lunga, complicata, ricca di schermaglie, fasi interlocutorie, colpi di scena e momenti drammatici.
È stata indiscutibilmente la più lunga tra le crisi della storia repubblicana risoltesi positivamente (88 giorni contro i 66 necessari a far nascere il sesto governo Andreotti nel 1989, che costituiva il record precedente), ma, considerando anche quelle che hanno portato allo scioglimento anticipato delle Camere, si colloca solo al quinto posto, superata dalle crisi seguite alle dimissioni degli Esecutivi Dini nel 1996 (127 giorni), Andreotti V nel 1979 (126 giorni), Andreotti I nel 1972 (121 giorni) e Prodi II nel 2008 (104 giorni).

Anche lo svolgimento di ripetute consultazioni presidenziali e il lungo tempo necessario per conferire l’incarico di formare il governo non sono una caratteristica esclusiva del 2018. Quanto, poi, all’inventività dei Presidenti della Repubblica nell’escogitare soluzioni atte a risolvere le crisi, i due mandati esplorativi e i due incarichi a tecnici (uno preannunciato e l’altro effettuato) affidati da Mattarella non sono paragonabili a quanto fatto nel 2013 da Giorgio Napolitano che, dopo la rinuncia al preincarico di Pierluigi Bersani e lo svolgimento di nuove consultazioni, nominò due inediti gruppi di lavoro con il compito di prefigurare le misure dirette ad affrontare tanto le difficoltà economiche quanto quelle di funzionamento delle istituzioni, da sottoporre poi alle forze politiche.

Qual è stata allora la maggiore peculiarità della crisi appena conclusasi? Da un punto di vista costituzionale, mi sembra che sia stato il confronto-scontro fra il sistema di checks and balances disegnato dalla nostra Carta fondamentale (previsto, con diverse varianti, anche nelle altre democrazie parlamentari) – azionato nella fase appena trascorsa dal Presidente della Repubblica, ma che in futuro potrà coinvolgere anche altri organi, come la Corte costituzionale o la Corte dei conti – e il contesto politico-sociale complessivo che si è venuto a creare, che per brevità definirei globalizzato, mediatizzato e populistico (senza voler assegnare giudizi di valore a questi termini).

Da un lato, vi è un sistema di procedure, binari ed anche limiti che il Capo dello Stato deve far rispettare; dall’altro, un contesto che pretende scelte dirette, rapide, senza mediazioni e che reagisce in modo insofferente alle lentezze procedurali e in modo esasperato a decisioni in sé non drammatiche, ma caricate di significati simbolici. La nomina di Paolo Savona è stata, in tal senso, emblematica: irrinunciabile per i proponenti, non avallabile dal Capo dello Stato, in entrambi i casi per ragioni di principio, essendo stata caricata del significato di un «guanto di sfida» ai vincoli di bilancio posti dall’Unione europea.

In realtà, in base alla Costituzione, la linea politica di un governo è stabilita dal Consiglio dei ministri, e non da un singolo ministro, e di essa è garante di fronte al Parlamento, al Paese ed anche all’Unione europea il Presidente del Consiglio. Inoltre non sarebbe fuori luogo sostenere che Savona sia stato sottoposto ad un processo alle intenzioni (che, in verità, egli stesso ha contribuito ad alimentare con il suo iniziale silenzio e poi con il suo comunicato del 27 maggio) prima che potesse adottare qualunque atto ufficiale.

Tuttavia, poiché viviamo nel contesto che si diceva, il Capo dello Stato ha ritenuto che Savona potesse essere visto, in Italia e soprattutto al di fuori di essa, «come sostenitore di una linea» che avrebbe potuto «provocare, probabilmente, o, addirittura, inevitabilmente, la fuoriuscita dell’Italia dall’euro», con gravissimi rischi per la stabilità finanziaria del Paese ed i risparmi di aziende e famiglie, protetti dalla Costituzione.

Si poteva, eventualmente, anche opinare sulla fondatezza di questo timore, ma, sul piano costituzionale, in quella fase toccava al Presidente della Repubblica valutare se e quanto esso fosse realistico, così come al medico di una squadra di calcio spetta giudicare se un giocatore sia fuori forma e sia quindi rischioso farlo giocare, al di là della volontà dell’allenatore.

Ciò rappresenta un meccanismo fisiologico in una democrazia rappresentativa, in cui «la sovranità appartiene al popolo, che la esercita nelle forme e nei limiti della Costituzione» (art. 1 della Carta costituzionale), ma tende ad apparire patologico a chi ritiene che alla volontà popolare – rappresentata da chi sia stato investito della fiducia della maggioranza dei cittadini – non possa essere frapposto nessun ostacolo. Di qui l’iniziale rifiuto di Salvini e Di Maio di indicare qualunque altro nominativo, in linea con l’indirizzo del nuovo Esecutivo, per la carica di ministro dell’Economia e, addirittura, l’accusa (poi evaporata) al Capo dello Stato di aver commesso i gravissimi reati di alto tradimento della Repubblica e attentato alla Costituzione.

Nel contempo, il contesto interconnesso e mediatizzato ha immediatamente amplificato lo scontro politico-istituzionale, suscitando proprio ciò che Mattarella voleva evitare, ossia la scomposta reazione dei mercati finanziari e la preoccupazione di altri Stati e dell’UE, che, a loro volta, attraverso la catena di dichiarazioni pubbliche, hanno ulteriormente alimentato la tensione.

La soluzione infine trovata può essere vista come un successo di Mattarella (che è riuscito ad ottenere un nome diverso per il ministero dell’Economia, con un evidente riconoscimento delle sue prerogative costituzionali) oppure di M5S e Lega (che sono comunque riusciti a far nominare il Governo Conte, basato sul loro «contratto di governo») o, magari, dell’UE e dei mercati finanziari (che hanno ottenuto un Esecutivo stabile, con Ministri più rassicuranti). Ma è stata soprattutto una vittoria della Costituzione, ossia di un sistema di valori e di regole che indirizza il modo in cui i membri della comunità italiana vivono insieme e sancisce gli scopi fondamentali che vogliono perseguire (la pace, il benessere, l’uguaglianza, il lavoro, la tutela dei diritti, ecc.). Un sistema che oggi è interconnesso con quello dell’Unione europea, il quale è fondato su analoghi valori ed obiettivi (pur con accentuazioni diverse della loro reciproca importanza, il che crea qualche problema).

La lezione che va, quindi, tratta dalla vicenda appena conclusasi è che tutti, governanti e governati, maggioranza e opposizione, devono riconoscere ed accettare l’esistenza, oltre che della volontà democraticamente espressa dai cittadini, anche di procedure e limiti, di checks and balances che incanalano la loro azione, senza peraltro snaturarla, al fine di garantire le esigenze di tutti.

Ne deriva il dovere di ciascuno di confrontarsi e dialogare con gli altri. Che è poi l’esigenza da cui ha preso il nome il Parlamento, un luogo dove ci si parla, ci si confronta anche duramente (osservando comunque regole e procedure), ma dove si deve rispettare sempre il ruolo altrui: proiezione di quella complessa rete di rapporti umani – ispirati da valori e incanalati da regole – che è una comunità statale (ma anche locale o europea).

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