Dall’Austria monta
un’onda asburgica

Il 60% dell’elettorato austriaco si è espresso per il centrodestra conservatore. I risultati delle elezioni di domenica scorsa si riflettono anche sulla scena politica tedesca. Angela Merkel si è vista sconfessata nella sua politica di apertura ai migranti ed ora ha difficoltà a condurre le consultazioni per la formazione della coalizione di governo con la Csu (Christliche Soziale Union), l’Fdp (Freie Deutsche Partei) e i Verdi. I bavaresi vogliono l’introduzione del numero chiuso per gli stranieri ed ora sembrano aver partita vinta.

I liberali chiedono il dicastero delle Finanze per affermare una politica intransigente verso i Paesi come l’Italia con un forte debito. L’idea è: o gli italiani fanno riforme lacrime e sangue o escono dall’euro. La situazione austriaca produce effetti inaspettati sulla Germania. Assistiamo ad un condizionamento inversamente proporzionale al peso economico dei due Stati.

Uno degli effetti della scelta elettorale austriaca è quella di aver assegnato alla politica il ruolo di baricentro spostando l’economia a fattore comprimario. Potremmo dire che la differenza che si sta creando fra Est e Ovest d’Europa passa per questo crinale. Si sta rifacendo in termini di omogeneità politica una sorta di coesione fra Stati che prima formavano il vecchio impero asburgico. Che al patto di Visegrad con Ungheria, Repubblica Ceca, Slovacchia, Polonia adesso si aggiunga potenzialmente anche l’Austria e quindi Vienna rende chiaro che il tempo passa ma le tradizioni storiche restano.

Accomuna questi Paesi la convinzione di rappresentare un’identità culturale che una volta si affermava nel cattolicesimo romano ed ora si esprime in un comune sentire in opposizione alle nuove culture, lingue, costumi che segnano l’avvento della globalizzazione e della transnazionalità. Ciò che ha resa diversa la Germania sinora è la scelta di rendere secondario tutto ciò che è nazionale o specificamente connotativo di un modo di essere. È la dimensione economica che fa premio. È possibile essere orgogliosi di essere tedeschi solo attraverso il marchio di un prodotto. Nessuno infatti può contestare che le eccellenze del made in Germany hanno una loro ragione d’essere nella precisione tecnica, nell’efficienza produttiva nella qualità finale del prodotto.

Una dimensione asettica che ha permesso al Paese che fu di Hitler e dello sterminio razziale di presentarsi ora come il difensore numero uno dei diritti umani in Occidente. Angela Merkel è stata premiata all’inizio del 2016 sulla copertina del settimanale americano «Time» come donna dell’anno per l’apertura delle frontiere all’ondata dei migranti provenienti dalla via balcanica. La Germania della prima donna cancelliere è l’avamposto dei valori dell’Occidente della postmodernità. Una dimensione troppo stretta per chi come all’Est ha lottato contro il comunismo sovietico per affermare un’identità che adesso è percepita in pericolo. Anche in una parte crescente dell’elettorato tedesco serpeggia l’insicurezza di chi teme di essere sopravanzato dai nuovi arrivati. Così prende piede ciò che sino a ieri era considerato improponibile e cioè la convinzione della propria superiorità. E parliamo di Leitkultur cioè di un vademecum dell’identità culturale, di ciò che connota i tedeschi e li fa diversi dagli altri. Solo una minoranza si permette di dirlo apertamente. Ma la riaffermazione dei canoni dell’ordoliberismo e cioè della cultura dell’ordine istituzionale, del risparmio, della stabilità economica porta a considerare tutti gli altri che non ne sono cultori una sorta di pericolo. Così sotto le spoglie dell’economia si fa strada il nuovo ordine europeo dettato da una sola necessità: riaffermare il primato della politica identitaria.

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