Fca investe negli Usa
Il declino italiano

La Fiat-Chrysler investe, ma non a Torino e negli altri stabilimenti di Melfi e Pomigliano. Il manager Sergio Marchionne è stato il primo ad essere invitato alla Casa Bianca dal neo presidente americano Trump il giorno dopo l’elezione. Abbiamo ancora negli occhi le foto nello studio ovale. La riforma fiscale di «Donald» (che era stata ampiamente promessa in campagna elettorale) lo ha convinto a rispondere con un piano da un miliardo di dollari per rafforzare la produzione in quel Paese. Ricordiamo che dal 2009, da quando cioè aveva stretto con Obama un piano di riconversione del colosso dell’auto Chrysler, Marchionne, che nel 2018 concluderà il suo mandato in Fca (si parla già dell’acquisto della Ferrari con la sua liquidazione), ha investito ben dieci miliardi di dollari negli stabilimenti industriali degli Stati Uniti.

Con risultati industriali e occupazionali formidabili in un gruppo che pareva ampiamente decotto e senza speranza. In questo caso a beneficiarne sarà l’impianto di Warren, nel Michigan, le cui linee di montaggio ospiteranno la nuova generazione del pick-up Ram Heavy Duty; ma anche i circa 60.000 dipendenti del gruppo americano ai quali arriverà un bonus di 2.000 dollari. A ciò si aggiungeranno 2.500 nuovi posti di lavoro. Le parole del manager italo-canadese rispecchiano le finalità della riforma fiscale: rivitalizzare l’attività economica (la riduzione delle tasse alle imprese arriva fino al 35%) e accelerare la crescita sopra il 3%. Notizie meno confortanti arrivano invece dagli stabilimenti Fca del Messico.

E in Italia? Nelle fabbriche ex Fiat del nostro Paese tira una brutta aria. È vero che nel 2017 l’azienda automobilistica ha realizzato un milione e 43 mila tra auto Fca, Ferrari e mezzi professionali, incrementando la produzione. Si parla di un aumento del 4,2% per il settore auto e del 3,2% per i mezzi commerciali. Ma la crescita non è sufficiente a dare a lavoro a tutti, anche se gli aumenti hanno permesso di far scendere l’uso di ammortizzatori sociali a 5,7 milioni di ore di cassa integrazione (contro i 32 milioni del 2013). E infatti da dicembre si parla diffusamente di diminuzione dei volumi di produzione, maggiore utilizzo degli ammortizzatori sociali a fronte della mancanza di adeguati investimenti nel gruppo torinese, in particolare nel cosiddetto «polo del lusso». Insomma: non tutti i 66.200 lavoratori italiani torneranno in fabbrica a pieno ritmo nel 2018. La preoccupazione è altissima: dopo le notizie dell’investimento americano della Fca, Regione e Comune annunciano infatti un tavolo di confronto per fare il punto sulle prospettive sugli stabilimenti torinesi (un tavolo di confronto è sempre rassicurante, anche se non si sa a cosa può portare in concreto).

Il gruppo italiano sconta gli effetti della globalizzazione cui anche Marchionne non ha potuto rinunciare. Se il cuore della grande azienda automobilistica non è più a Torino ma negli Stati Uniti, anzi a ben vedere in un indistinto quartier generale nel cuore dell’Olanda, scelto per ragioni fiscali (ancora una volta) allora le decisioni sono molto differenti, e non tengono conto dell’indotto, del tessuto industriale e soprattutto della sorte dei lavoratori di un Paese.

Solo il Governo può intervenire per salvare le imprese italiane. Ci sono le elezioni, qualcuno ha sentito una dichiarazione a proposito delle sorti del maggior gruppo industriale privato? Inoltre, a differenza di Trump, sarà difficile che il prossimo Governo metta in campo sgravi fiscali così imponenti. E dunque dovremmo rassegnarci al declino? Finora pare proprio di sì, quanto meno dovremo aspettarci una «decrescita» più o meno infelice.

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