Il decreto dignità
Un esordio scivoloso

All’ottavo Consiglio dei ministri da quando è nato, il governo Conte, o per meglio dire Salvini-Di Maio, ieri sera si accingeva a varare il suo primo provvedimento di una certa importanza in materia di politica economica ed economico-sociale. Contrariamente alle attese, però, questo provvedimento non riguarda né la flat tax, né la pace fiscale, né lo smantellamento del sistema pensionistico secondo Fornero e tantomeno il reddito di cittadinanza, tutti i cavalli di battaglia dei due partiti che compongono l’alleanz agiallo-verde. In queste settimane il ministro del Tesoro Tria deve aver lavorato con poche parole e molti fatti per rallentare la corsa verso provvedimenti privi di copertura finanziaria e assai dispendiosi per le casse dello Stato.

Viceversa il Consiglio ieri sera era chiamato a varare il cosiddetto decreto «Dignità» voluto da Luigi Di Maio nelle sue vesti di ministro del Lavoro, per avviare da subito la lotta alla precarietà e «smantellare il Jobs Act» di renziana memoria. In questa ottica, i buoni dati Istat sull’andamento dell’occupazione (i migliori dal 2012) sono stati salutati negativamente dallo stesso Di Maio: «Non c’è niente da festeggiare nel record della precarietà».

Per questa ragione il provvedimento entrato ieri sera in Consiglio si limita a rimodulare il sistema dei contratti a tempo irrigidendo le norme, limitandone cioè l’uso sia nella durata che nel numero degli impieghi, e aumentando i costi per le aziende (cresce del 50% l’indennizzo di licenziamento). Un fronte compatto di associazioni datoriali ha sparato subito alzo zero contro il provvedimento: Confindustria, Confagricoltura, Confesercenti, Confcommercio hanno detto e scritto in coro che questo provvedimento è la strada sbagliata se si vuole aumentare l’occupazione, che anzi esso provocherà l’effetto contrario al prossimo rinnovo di contratti (in agosto si prevedono molte disdette, alcuni si spingono a stimare in 900 mila i mancati rinnovi) e finirà solo per moltiplicare il contenzioso. Insomma, norme più rigide e più costose: il giudizio negativo degli imprenditori – molti dei quali hanno attribuito calorose accoglienze a Di Maio nelle loro assemblee – non poteva essere più netto. D’altra parte proprio il Jobs Act appartiene a quella fase in cui era più alto il consenso degli imprenditori al governo Renzi che aveva nella sua agenda l’ammodernamento del diritto del lavoro. Quanto ad altre misure, il testo ieri sera conteneva l’aggiustamento del redditometro, lo slittamento delle scadenze dello spesometro e le misure sullo split payment limitate ai professionisti. Più nette semmai le sanzioni a carico delle aziende che delocalizzano dopo aver ottenuto fondi pubblici e le norme per contrastare la ludopatia.

Le critiche dei sindacati e della Cgil sono altrettanto dure ma specularmente opposte a quelle dei datori di lavoro: «Non c’è nessun vero smantellamento del Jobs Act» diceva Maurizio Landini ieri sera: ma a lui dovrebbe esser gradito comunque il mancato reintegro dei voucher (che la Lega avrebbe voluto).

È chiaro che, essendo questo il canto d’esordio del governo, le opposizioni si sono subito scatenate. Sia il Pd che Forza Italia e Fratelli d’Italia hanno subissato di critiche il provvedimento definendolo inutile se non dannoso (addirittura «comico» secondo l’economista Marattin, già consulente di Paolo Gentiloni a Palazzo Chigi) e promettendo battaglia in Parlamento. Il provvedimento però è un decreto, e come tale andrà subito in vigore. Il primo vero bilancio delle sue novità si potrà trarre dunque solo sessanta giorni dopo il varo quando si tratterà di trasformarlo definitivamente in legge.

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