Il Papa e Trump
L’agenda aperta

Non c’è dubbio che le due agende sono difformi e, in alcuni punti di assoluta rilevanza, totalmente in contrasto. Eppure Francesco ha detto che ci parlerà senza pregiudizi, come fa con qualsiasi altro leader politico mondiale. Il Papa non si sceglie gli interlocutori e così ha aperto senza alcuna difficoltà e senza condizioni la porta del Vaticano a Donald Trump. L’agenda del Papa è inclusiva, è un’agenda aperta, anzi qualcuno dice, al limite del paradosso, che Bergoglio non ha nemmeno un’agenda. Parla con tutti, con molto realismo, ma anche con la determinatezza a portare gli interlocutori a ragionare sugli elementi di frattura e a percorrere le faglie inquiete di un’epoca di cambiamenti dove non si rintraccia più un pensiero unico, ancorché contrapposto, come avveniva al tempo della Guerra fredda.

L’etica «buonista» che distingue tra buoni e cattivi, tra bianco e nero, tra «salvabili» e «insalvabili» non trova posto nell’agenda di Papa Francesco. Per lui nessuno è fuori dall’Alleanza, quel nuovo patto del Sinai che nel recente viaggio in Egitto ha inchiodato sulle sorti future dell’umanità. Nemmeno Donald Trump.

L’incontro tra i due, questa mattina presto, tredicesimo presidente americano in udienza dal Papa dal 1919 quando Woodrow Wilson vide Benedetto XV, non terrà per questo motivo il mondo con il fiato sospeso. I due non sono d’accordo quasi su niente, ma ciò non significa che Vaticano e Stati Uniti non debbano dialogare proprio sulle differenze e sui disaccordi. Trump non si presenta bene e non solo per le sue idee sulle migrazioni, già sanzionate da Bergoglio nel viaggio in Messico, quando si affacciò sul muro che divide il Rio Bravo e che Donald vuole rinforzare e allungare, se trova i soldi. Il presidente americano, come si è visto in questo suo primo viaggio all’estero soprattutto nella tappa in Arabia Saudita, ha un’agenda contrapposta a quella di Bergoglio. I suoi interlocutori sono i militari, gli amministratori delegati, la sua diplomazia mette al primo posto gli scambi commerciali e poi i popoli. Bergoglio dialoga con i movimenti popolari e per lui gli «amministratori delegati» sono i vescovi più periferici di Paesi che contano nulla nel sussidiario del politicamente corretto, dentro e fuori la Chiesa, e li fa perfino cardinali. Francesco sbaraglia cocciutamente ogni sponda teologica al potere. Donald cerca disperatamente quella sponda sia essa fornita dai cattolici conservatori negli Stati Uniti o dagli «evangelical» bianchi e razzisti. Francesco spariglia le carte in ogni gioco perverso che porta al rafforzamento delle identità. Donald con le parole d’ordine sull’«American first» fa esattamente il contrario e polarizza ogni frontiera per linee etniche, sociali e ideologiche. Le differenze si sono viste in Medio Oriente. La Santa Sede ha sempre cercato il dialogo con l’Iran e si è spesa per rimettere Teheran nel grande gioco mediorientale. Trump con una frase lapidaria contro l’Iran ha riproposto la teoria del «grande satana» e ha rafforzato l’alleanza con i sauditi sunniti, nonostante Bin Laden e la filiera del terrorismo di matrice salafista. Lo slogan coniato da Riad per la prima visita all’estero del presidente americano era «Insieme per prevalere» e l’abbraccio è stato immediatamente corroborato da un contratto per 110 miliardi di dollari in armamenti, cifra spaventosa, ma solo un assaggio della torta finale di ben 350 miliardi di dollari.

L’«American first» non prevede cedimenti sul commercio più nefasto del globo, denunciato un giorno sì e l’altro pure da Francesco. Il mondo di Bergoglio invece non è una frontiera da conquistare, per lui l’altro non è comunque un antimodello, come invece accade per l’inquilino della Casa Bianca. La diplomazia della Santa Sede, rappresentata dal cardinale Pietro Parolin, è congegnata attorno alla riflessione di Angelo Roncalli, che nell’appello del 2 ottobre 1962 sulla crisi di Cuba, scrisse: «Promuovere, favorire, accettare colloqui a tutti i livelli in tutti i tempi è una regola di saggezza e di prudenza».

Il paradosso è che entrambi, Trump e Bergoglio vengono definiti «populisti». Ma la tesi è una trappola, da cui guardarsi. Perché serve ad alcuni per nobilitare Trump e a molti per rendere volgare e svilire Bergoglio, definito senza tanti giri di parole il Papa più anticattolico nella storia recente della Chiesa.

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