Il Pd si spacca
e i grillini ridono

La crisi del Partito democratico si sta prolungando senza ancora riuscire ad arrivare ad un punto certo, e questo accartocciarsi del partito di maggioranza intorno alle sue lotte intestine rende la vicenda ancora meno decifrabile dai cittadini-elettori. La riunione della direzione di ieri, chiamata ad avviare formalmente le procedure congressuali che dovranno concludersi entro quattro mesi – e cioè prima delle elezioni amministrative di giugno – ha visto i cosiddetti «scissionisti» dividersi tra loro.

Come avevano annunciato, Bersani e Speranza, con i loro accoliti, non si sono presentati alla riunione facendo dunque un altro passo verso la loro fuoriuscita; viceversa il governatore della Puglia Michele Emiliano, con un’ennesima giravolta, a sorpresa si è presentato a via del Nazareno e ha annunciato che non solo resterà nel Pd ma si candiderà alla segreteria contro l’uscente Matteo Renzi verso il quale non ha certo risparmiato critiche e sarcasmi.

Questa divaricazione nel gruppo degli scissionisti manda velocemente in archivio la foto del teatro Vittoria, quella in cui Emiliano, Speranza e il governatore della Toscana Rossi si abbracciavano come membri del triumvirato che avrebbe fatto vivere un nuovo partito, e indebolisce la manovra di fuoriuscita.

Il partito che nascerà alla sinistra del Pd non avrà i tanti voti pugliesi di cui Emiliano è portatore (e questo riduce il danno elettorale per Renzi) ma soprattutto la scissione perde il suo esponente più brillante, l’unico in grado di conquistarsi un posto in prima fila. Insomma, l’operazione D’Alema non è andata in porto fino in fondo. Cosa accadrà ora?

Ora accadrà che una quarantina di deputati e circa venti senatori fedeli a Bersani costituiranno alla Camera e al Senato dei gruppi parlamentari autonomi cui si uniranno i fuoriusciti di Sel che fanno capo all’ex capogruppo Arturo Scotto che si è rifiutato di aderire a «Sinistra Italiana». Insieme, Bersani, Speranza e Scotto avranno in Parlamento, e soprattutto in Senato, un consistente potere di ricatto nei confronti del governo – cui hanno almeno in parte assicurato l’appoggio – che dunque si ritroverà ora un po’ più debole di quanto non fosse la scorsa settimana. E questa è la circostanza che probabilmente dovrebbe preoccupare di più.

Da una parte Gentiloni va avanti senza sapere fino a quando – giacché non pare che Renzi, soprattutto ora che si è liberato dei suoi più ostici avversari interni, abbia rinunciato ad elezioni al più presto possibile. Dall’altra in questo suo percorso limitato, il premier dovrà contrattare ogni singola misura con un partito diverso dal Pd che al Senato rischia di essere determinante.

Si obietterà: ma già adesso Bersani metteva ostacoli a qualunque provvedimento di palazzo Chigi. Vero. Ma un conto è, per il presidente del Consiglio, contrattare con una corrente del proprio partito, un conto è mettersi a tavolino con un partito alleato. Insomma, per capirci: la vita del governo diventerà più stentata.

E questo accadrà in un momento delicatissimo sotto vari aspetti: primo, perché Roma sta discutendo con Bruxelles i termini di un riallineamento dei conti pubblici che in un modo o in un altro dovrà comunque avvenire e che, quando avverrà, peserà nelle tasche dei contribuenti (che certo non saranno grati al governo e al Pd). Secondo, perché stiamo entrando in un tunnel di impegni internazionali in cui l’Italia è chiamata a sviluppare un proprio protagonismo, a partire dalle celebrazioni in marzo dei Trattati di Roma (che tutto sarà tranne che una occasione di cerimoniale) e poi dal G7 di Taormina ospitato e diretto dal nostro Paese. Nel frattempo Gentiloni dovrà continuare ad assicurare ai terremotati del Centro-Italia un impegno costante mentre si intravede in arrivo la bufera di un possibile default di Alitalia.

Tutti impegni che meriterebbero un governo nel pieno del mandato politico e, con alle spalle, un partito ragionevolmente coeso pronto a sostenerlo nelle aule parlamentari. E invece Gentiloni avrà dietro di sé un partito indebolito dalla scissione e un leader, Renzi, che non vede l’ora di mandarlo a casa per correre alle elezioni alla ricerca di una rivincita post-referendaria.

Tutte condizioni di instabilità che verosimilmente spianano la strada a Grillo e ai suoi militanti: nonostante la deludente prova di Roma, i guai giudiziari e le gaffe di Virginia Raggi, il M5S sente di avere il vento in poppa e già prepara il proprio «programma di governo».

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