Il rilancio dell’Italia
passa anche dalle strade

Nella nota stampa del direttore dell’Istituto di tecnologia delle costruzioni del Consiglio nazionale delle ricerche Cnr-Itc, Antonio Occhiuzzi, all’indomani della tragedia di Genova del 14 agosto si afferma: «È necessario capire perché, in presenza di elementi che hanno indotto a rinforzare alcuni stralli, non siano state operate le medesime cure sugli altri, gemelli e coevi». Proprio quelli che hanno ceduto. Vi è un’evidente difficoltà tecnica ad accertare la tenuta del manufatto. I sistemi di monitoraggio e sorveglianza sono inadeguati. L’Italia ha grandi tradizioni nella costruzione di infrastrutture, possibile che non ci si ponga il problema del controllo con una rete di ponti e viadotti così vetusta? L’indignazione generale nasce dalla percezione di essere lasciati soli, di non poter contare su una classe dirigente che oltre a godere dei vantaggi della sua posizione pensi anche al bene dei cittadini.

Quella responsabilità che fa carico all’imprenditore illuminato di sentirsi parte della comunità e di condividere il senso di appartenenza. Adesso è necessario partire da capo come nel dopoguerra, dare corso ad un programma decennale di rimodernamento delle infrastrutture stradali.

Secondo gli studi del Cnr ogni metro quadrato di un ponte costa 2.000 euro, facendo la media della lunghezza si arriva a 800 metri per circa diecimila ponti. I miliardi di euro necessari sono più di dieci. Per un bilancio pubblico come quello italiano gravato da un debito enorme e con un’economia ancora asfittica una cifra improponibile. Il governo in carica gode in questo momento del favore popolare. A Bruxelles e Berlino sanno che senza l’Italia nell’Unione Europea «rien ne va plus». Un programma di investimenti mirati sulla rete stradale ha anche il grande pregio di rilanciare l’economia. Computare la spesa come esborso produttivo al di fuori dei vincoli di bilancio potrebbe essere una soluzione. Lo scetticismo nei confronti dei governi italiani è più di natura etico-morale che economica in senso stretto. Non si vuole che risorse pubbliche siano depredate dalla corruzione e dalle mafie. Se il governo del cambiamento fosse in grado di garantire trasparenza negli appalti e controlli efficaci contro le infiltrazioni della malavita a Bruxelles le posizioni potrebbero ammorbidirsi. L’Italia ha bisogno di un rilancio. Troppe in questi anni le defezioni: da Parmalat buttata al vento da Tanzi, a Pirelli passata ai cinesi, a Bulgari ceduta ai francesi. Interi settori lasciati andare col fine ultimo di arricchire gli azionisti ma senza ricadute positive per l’autonomia e indipendenza del capitalismo italiano e dell’economia nazionale.

Senza la piccola e media impresa, senza i distretti l’Italia sarebbe terra di nessuno. I Benetton si sono buttati nel settore delle autostrade cioè dei servizi pubblici che sono una vera miniera di denaro contante. L’hanno fatto con spirito di conquista, convinti di dare il minimo indispensabile per trarre il massimo vantaggio. Lo sanno tutti gli automobilisti che devono convivere con le tariffe autostradali più care d’Europa. E con la tragedia di Genova sono assurti, loro malgrado, a simboli di un fallimento, quello di una classe imprenditoriale incapace di immaginarsi al servizio degli utenti e del Paese. E questo quando milioni di italiani si trovano esposti ai mutamenti della globalizzazione senza poter contare sull’aiuto di nessuno. La rabbia di questi giorni è anche questo. Genova è uno spartiacque, un cambiamento del sentire popolare, un risveglio. La vecchia classe dirigente collusa con il potere politico viene delegittimata dal cordoglio popolare. Ma la grande sfida è emanciparsi dai propri vizi: perché i Benetton vanno e vengono ma le mafie e le corruzioni restano.

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