Una tenda nel fango
e il sogno spezzato

Può una tenda da campeggio piantata nel fango diventare la casa dei sogni? Per le famiglie siriane e irachene che in questi tre mesi hanno vissuto nel campo di Idomeni lo è stata per varie e motivate ragioni: in primis perché, al netto della mancanza di cibo, delle condizioni di salute precarie, dell’incertezza sul futuro, era ancorata in un luogo in cui dormire senza temere la raffica notturna di bombe dal cielo; poi perché i picchetti di quelle tende li hanno potuti piantare solo i sopravvissuti di una traversata in mare, dalla Turchia alla Grecia, che ha lasciato centinaia di vittime nell’Egeo.

Infine quella tenda era – è – il segno della speranza. La speranza di varcare il confine che proprio a Idomeni divide la Grecia dalla Macedonia e queste famiglie dal loro sogno: la Germania. Un Paese in cui ci sono conoscenti, magari anche qualche congiunto, un posto dove riprendere un mestiere o gli studi, in cui semplicemente ricominciare a vivere. Solo una straordinaria voglia di vivere ti fa stare per tre mesi a Idomeni.

Ieri le ruspe hanno spazzato vie quelle tende e con esse i sogni di poter vedere quel confine chiuso ormai da fine febbraio riaprirsi e poter riprendere il cammino lungo le rotaie costruite da noi europei proprio per rendere più agevoli i collegamenti alle persone e alle merci tra il porto di Salonicco, la Macedonia, la Slovenia, e poi su fino all’Austria e alla Germania. Il governo greco aveva a lungo annunciato l’intenzione di sgomberare il campo di Idomeni: l’altra notte, nella radura vicino al villaggio di 200 abitanti, è arrivato l’esercito – 400 agenti in tenuta antisommossa – almeno 20 bus, per trasferire le famiglie da Idomeni a dei campi attrezzati nelle vicinanze: a Cherso, Oreokastro, Lagadigkia, l’hotspot di Diavala. Campi con servizi igienici, distribuzione di cibo, presidio medico, luoghi gestiti in collaborazione con l’Unhcr in cui registrarsi ed entrare nei programmi della cosiddetta «relocation», il ricollocamento dentro i confini europei dei richiedenti asilo.

Lo sgombero era necessario, anzi forse è stato per certi versi tardivo. A Pasqua quando siamo stati a Idomeni, il campo accoglieva almeno 10.500 persone e fino a 20 mila ormai vivevano in una serie di campi cresciuti spontaneamente vicino ai distributori di gasolio, agli hotel, lungo le strade. Un concentramento di persone in condizioni a dir poco precarie creatosi da una parte per la chiusura del confine greco-macedone e poi per l’entrata in vigore dell’accordo tra Unione europea e Turchia che ha bloccato gli sbarchi. La Grecia si è trasformata in un imbuto per i profughi in cui non entrare e neppure uscire. Il governo Tsipras è stato lasciato solo a gestire l’emergenza e ha fatto quello che ha potuto contando che deve fare i conti all’interno con due milioni di disoccupati su dieci milioni di abitanti.

Le famiglie siriane, irachene, afghane ieri hanno raccolto in sacchi neri di plastica gli oggetti di quel loro nido temporaneo e, scortati dalla polizia, hanno ripreso il loro cammino. In molti non avevano neppure chiaro dove sarebbero andati, alcuni hanno provato a varcare il confine nella notte, altri purtroppo si sono affidati ai trafficanti di esseri umani, bulgari in questo caso che promettono documenti e trasporti «sicuri» a caro prezzo. La maggior parte, 8.400 persone, nei prossimi cinque giorni lascerà il campo per andare ad abitare una nuova tenda, non si sa per quanto tempo e a quali condizioni.

Una cosa è certa: la loro speranza non morirà. Resta ancora una volta a noi il compito di dare una risposta a questa domanda: che cosa ne fa l’Europa di questa speranza, di questa straordinaria voglia di vivere? Ci auguriamo che la risposta, ancora una volta, non sia parcheggiarla in una tenda nel fango.

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