In Birmania il Papa
riporta il dialogo

A San Suu Kyi serviva una mano e il Papa gliel’ha data. E c’è già un primo risultato clamoroso del viaggio nell’ex-Birmania, annunciato ieri dal governo. È la ripresa della «Conferenza di Panglong» a gennaio, un percorso di incontro e negoziato tra tutti i gruppi etnici del Paese per (ri)costruire la democrazia. Non c’è solo infatti la questione dei Rohingya nel dramma di una nazione etnicamente spaccata in troppi pezzi, dove alcuni gruppi hanno avuto certamente più voce degli altri, ma in realtà a tutti è sempre stata negata voce politica dai militari, che li hanno utilizzati strumentalmente per consolidare il proprio potere.

Ciò che non ha capito la comunità internazionale quasi per intero, Bergoglio e la diplomazia vaticana, aiutati dalla Chiesa cattolica locale, invece lo hanno ben compreso. Ieri Francesco nei suoi discorsi ha usato parole chiave cruciali per indicare alla Birmania il percorso virtuoso verso la pace e la democrazia, le stesse di San Suu Kyi: forza, pazienza, coraggio, bellezza della diversità, unità, perdono e tolleranza. Ha spiegato che esse servono ad una «saggia costruzione del Paese» e ha toccato le corde del cuore di tutti i birmani, aggiungendo che «l’unità» non è «uniformità», ma «armonia». Ha parlato di «ordine sociale giusto riconciliato e inclusivo» e ha sottolineato «il rispetto di ogni gruppo etnico e della sua identità», aggiungendo «nessuno escluso» con evidente riferimento ai «Rohingya». Ed è stato lui a evocare nel discorso al governo e al corpo diplomatico all’International Convention Center di Nay Pyi Taw, la capitale birmana, l’importanza della Conferenza di Panglong, indicando che è da essa che bisogna ripartire rilanciando da capo la riflessione sulla «birmanità» per trovare una soluzione, che non si occupi solo dei Rohingya, e che abbia invece uno sguardo più globale sulle segregazioni etniche incrociate. Oggi in Birmania non c’è un consenso dei vari gruppi etnici sulla natura dello Stato, né sull’organizzazione del potere e nemmeno sulla ripartizione delle risorse.

Ogni rivendicazione sui diritti umani, politici ed economici viene così vista come un tentativo di disarticolare l’identità birmana, che finora è stata solo quella imposta dalla Giunta militare. Quando è scoppiata di nuovo la questione della minoranza musulmana dei Rohingya il mondo se l’è presa con San Suu Kyi, chiedendole addirittura di restituire il Nobel per la pace, senza capire che il suo silenzio era l’unica scelta per salvare la democrazia ed evitare il suicidio politico, di fronte agli avvoltoi militari pronti a destituirla. La Santa Sede ha avuto un’altra posizione, continuando a denunciare le persecuzioni contro i Rohingya, ma tenendosi alla larga dalle critiche al Premio Nobel e insistendo su una più ampia riconciliazione nazionale in un Paese dove sono almeno una ventina i gruppi etnici armati più o meno attivi.

Ieri San Suu Kyi ha rivendicato la giustezza del proprio approccio, che sostanzialmente prevede un programma di riconciliazione nazionale basato su grandi investimenti in servizi sociali, scuole, ospedali in uno Stato laico, dove tutte le minoranze e le religioni abbiano gli stessi diritti politici e le stesse opportunità economiche. Ma San Suu Kyi e la fragile democrazia birmana, sotto tutela dei militari vanno sostenute. Per questo motivo il Papa è andato lì a spiegare che «ciascun individuo e ogni gruppo – nessuno escluso – deve offrire il suo legittimo contributo al bene comune». Il sogno di San Suu Kyi è quello di rifondare la Birmania, tornando proprio a sedersi a Panglong, località dove suo padre Aung San e padre della Birmania post-coloniale, nel 1947 pose le basi per un accordo tra i maggiori gruppi etnici birmani, poi vanificato dal suo assassinio e da allora sempre osteggiato dai governi militari. Da ieri sulla ripresa della Conferenza e il futuro della Birmania c’è il sigillo del Papa.

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