Innocenti in cella
La civiltà in gioco

La cronaca talvolta racconta fatti che meriterebbero di non essere archiviati con l’indignazione emotiva del momento o addirittura con un’alzata di spalle. Perché quei fatti sono cartine al tornasole di problemi più generali e in attesa di risposte. Appartiene a questa categoria di notizie la vicenda di Angelo Massaro, di Taranto, 51 anni, 21 dei quali trascorsi in cella per un omicidio non commesso. Settimana scorsa è stato riconosciuto innocente dopo la revisione del processo chiesta dai suoi avvocati: la condanna infatti fu comminata sulla base di un’intercettazione in dialetto pugliese
mal compresa.

Massaro era sotto indagine per droga e durante un colloquio telefonico con la moglie pronunciò la parola «muers» (significa materiale ingombrante) riferita a un piccolo escavatore che trasportava nel carrello agganciato all’auto. Fu interpretata per «muert» (morto) e l’equivoco concorse a consegnare l’indagato alle patrie galere. Ma andiamo oltre questo fatto clamoroso. Soltanto nel 2016 il nostro Stato ha pagato 42 milioni di euro in risarcimenti a persone vittime di errori giudiziari (riconosciute innocenti con una sentenza di revisione come nel caso di Taranto) o di ingiuste detenzioni. Queste ultime si riferiscono a cittadini che hanno subìto il carcere preventivo (cioè la custodia cautelare) durante la fase delle indagini preliminari, poi liberati perché l’arresto non andava compiuto o prosciolti senza nemmeno arrivare a processo. Nei giorni scorsi sono stati ricordati i 25 anni di Mani pulite. In questo quarto di secolo 25 mila persone private ingiustamente della libertà sono state indennizzate dallo Stato con un esborso complessivo di 648 milioni. L’Italia abusa dell’istituto della carcerazione preventiva, che riguarda il 42% dei detenuti: nel bacino europeo siamo secondi solo alla Turchia (60%) e ben al di sopra della Francia (23,5%), della Spagna (20,8%), del Regno Unito (16,7%), e della Germania (16,2%).

I numeri riferiti agli errori giudiziari tengono ovviamente conto solo chi ha chiesto e ottenuto la revisione del processo. In media trascorrono una decina di anni prima che l’errore venga accertato e l’indennizzo riconosciuto. Il presidente dell’Associazione nazionale magistrati (Anm), Piercamillo Davigo, ha liquidato quei numeri come «fisiologici» per il sistema, affermando che i giudici possono essere tratti in inganno da chi ha compiuto le indagini o da testimoni. Per questa ragione Davigo si oppone anche a provvedimenti disciplinari per sanzionare le toghe «cadute» in errore. I numeri e i dolori di ogni singola storia meriterebbero però un affronto meno corporativo e più approfondito, perfino autocritico. In discussione infatti non è l’autorevolezza della magistratura nel suo complesso né la sua autonomia. Ma fatti circostanziati e cifre che sollevano domande sul grado di civiltà giuridica del nostro Paese, sulle criticità irrisolte all’interno del processo penale. Non a caso il ministro della Giustizia Andrea Orlando ha operato per trovare rimedi a storture e inefficienze non tutte riconducibili alla scarsità di risorse delle Procure, incontrando resistenze dell’Anm. Il contrasto alla criminalità e alla corruzione è una priorità che non può giustificare gravi errori di valutazione sulla pelle degli innocenti: la sottovalutazione di questa evidenza genera un danno alla credibilità della giustizia. Nessun risarcimento economico può compensare la vita stravolta di chi paga letteralmente sulla propria pelle gli errori giudiziari, che chiamano in causa responsabilità personali. Non a caso il «dubio pro reo» è un principio giuridico. Nel dubbio, giudica in favore dell’imputato. Varrebbe allora la pena, per chi ha ruoli istituzionali, affrontare quei numeri e quelle storie almeno con il beneficio del dubbio, chiave indispensabile per mettersi in gioco.

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