La diplomazia
delle parole

Il discorso di Giuseppe Conte in Senato non ha fatto che confermare le linee generali del contratto stipulato tra Lega e M5S e al quale il presidente del Consiglio ha dichiarato di aver «discretamente» partecipato. Una precisazione che in qualche misura conferma che Conte è e rimarrà un «esecutore» della volontà dei due partiti alleati sfuggendo così all’autonomia di decisione che la Costituzione gli riconosce precisandone i poteri e le prerogative. È una condizione di debolezza intrinseca, non tanto del professor Conte (un tecnico non eletto parlamentare) quanto dello stesso governo che si avvia ad avere una triplice posizione di premiership: quando si tratterà di concretare il programma e di concordare delle scelte non preventivamente condivise, in questa affollata cabina di regia si potrebbero creare non pochi problemi.

Non sarà un caso che su molti argomenti il discorso programmatico ha di necessità usato la diplomazia del vocabolario, qui addolcendo o sorvolando, là dribblando gli scogli. Un esempio molto chiaro è quello delle grandi opere su cui Lega e M5S la pensano in maniera assai diversa, o sull’Ilva che gli uni vorrebbero bonificare e rilanciare, gli altri avviare alla chiusura.

Anche sull’euro Conte ha dovuto usare una cautela che agli avversari è apparsa subito sospetta: certo nessun accenno preciso alla volontà italiana di scendere a posizioni no-euro o addirittura di Italexit, ma nemmeno alcuna dichiarazione risolutiva di lealtà ai patti costi quel che costi, salvo manifestare, sul piano più generale dell’adesione all’Unione, una decisa volontà di modificare i trattati, cosa sulla quale ci potrebbe essere un largo consenso se non fosse per l’interrogativo sulle intenzioni «finali» dei contraenti.

Allo stesso modo il presidente del Consiglio ha sì ribadito la tradizionale collocazione occidentale dell’Italia e la fedeltà alla Nato, ma con ampie aperture alla Russia di Putin cui Roma dice di guardare come ad un partner, non certo come un avversario. Parole che non sfuggiranno ai partners, con tutti i sospetti che corrono per il mondo sulla volontà di Putin di influire surrettiziamente sugli equilibri politici interni degli Stati Uniti ma anche dell’Europa.

Giuseppe Conte, che prima di essere prescelto da Luigi di Maio come possibile ministro, aveva – così ha detto lui – un cuore che batteva a sinistra. Sarà stato anche per questo che si è sentito in dovere di precisare che né lui né il suo governo né la maggioranza «è fatta di razzisti». Una avvertenza che in effetti mai era stato necessario enunciare prima di ora anche se il presidente del Consiglio ha potuto incassare un applauso scrosciante dell’intera aula quando ha ricordato il bracciante sindacalista maliano fucilato in Calabria.

Ma tutto questo tentativo di interpretare le parole, le omissioni o le enfatizzazioni del discorso di ieri in Senato ha in realtà scarso significato politico: per giudicare il governo grillo-leghista, e soprattutto il governo grillo-leghista, occorrerà valutarne gli atti, le politiche, le relazioni internazionali, la tenuta dei conti pubblici, il mantenimento delle promesse elettorali, a cominciare dalla flat tax e dal reddito di cittadinanza.

Di Maio e Salvini avranno di fronte un’opposizione molto indebolita ma non per questo disposta a fare sconti: del resto tutti sono consapevoli che questo governo fondamentalmente ci deve condurre allo spareggio tra Lega e M5S che tutti sanno che arriverà: presto o tardi arriverà.

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