La sottile e nascosta
diplomazia del Papa

Un Papa pastore. Un Papa assente dalla scena della diplomazia mondiale. Un Papa che avrebbe ignorato e sarebbe stato a sua volta ignorato dai potenti. Così, seguendo vecchi schemi, era stato prefigurato da molti osservatori il Pontificato di Papa Francesco. A poco più di due anni dalla sua elezione si può comodamente dire che mai previsione si è rivelata tanto lontana dai fatti. L’elenco delle situazioni di tensione o di conflitto alle quali Bergoglio ha dedicato un’attenzione che si è rivelata decisiva, è ormai molto lungo.

Solo per citare i casi più eclatanti, si va dall’intervento contro la guerra in Siria, all’incontro Shimon Peres e Abu Mazen in Vaticano, alla mediazione tra Usa e Cuba, al lavoro per favorire l’accordo sul nucleare in Iran. Ma Papa Francesco presidia, con intelligenza accorta e muovendo i suoi uomini più fidati, tutti i fronti, maggiori e minori, fronti sui quali l’emergenza è all’ordine del giorno.

Lo stile di Bergoglio è molto chiaro e per certi versi può anche trarre in inganno. Lui chiede sempre che la Chiesa si muova sotto traccia, che gestisca le situazioni di crisi senza proclami ma lavorando dietro le quinte. Non ama la teatralità delle posizioni di principio, preferisce il pragmatismo del buon senso e il realismo delle soluzioni di mediazione. Non vuole una Chiesa che si sieda al tavolo delle trattative, ma semmai una Chiesa che stimoli gli attori in conflitto a mettersi al tavolo e cercare insieme delle vie d’uscita. Lo stile del Bergoglio «diplomatico» è perciò molto simile a quello del Bergoglio «pastore»: per lui non contano gli scenari, non lavora per ottenere riassetti geopolitici più omogenei ad una visione cattolica. A lui interessa che il dialogo prevalga sempre sullo scontro, perché, come aveva detto con una certa severità a un gruppo di fedeli ucraini incontrati in Vaticano, non bisogna puntare alla vittoria, bisogna puntare alla pace.

Bergoglio si è mosso sotto traccia anche in occasione dello storico riavvicinamento tra Cuba e Stati Uniti. Sono state due sue lettere private a Raul Castro e a Barack Obama a smuovere una situazione bloccata da oltre 50 anni. In quelle lettere non erano formulate proposte vaticane per una soluzione. Erano lettere in cui il Papa invitava a venirsi incontro e a trovare un accordo perché sarebbe stato più conveniente per tutti. Conveniente per Obama, perché avrebbe conquistato agli Usa il consenso di un continente ostile come l’America Latina («Se vuole la simpatia dei latinoamericani, rimuova i problemi con Cuba», avrebbe suggerito il Papa al capo della Casa Bianca). Conveniente per Castro per uscire da un ingabbiamento che impoveriva il Paese e i cittadini. Il valore dell’accordo, ha detto Bergoglio, sta soprattutto nel garantire maggiore benessere alle persone.

Anche sull’Iran la diplomazia vaticana si è mossa senza farsi notare. Lo ha sottolineato qualche giorno fa un autorevole osservatore del Boston Globe, John Allen. Con Teheran non ci si può rapportare solo in termini di realpolitik ma di concetti spirituali. «E nessuno statista occidentale avrebbe potuto farlo in modo credibile, ma il Vaticano sì». Così la strada verso lo storico accordo di Ginevra sul nucleare ha avuto come tappa simbolicamente importante nell’incontro in Vaticano con la vicepresidente iraniana Shahindokht Molaverdi in occasione del Sinodo sulla famiglia. Un incontro da cui è scaturito un invito, subito accettato, a partecipare all’appuntamento mondiale delle famiglie a Philadelphia il prossimo settembre.

Bergoglio è anche un Papa che, quando serve, non esita a parlar chiaro. Lo ha fatto in questi giorni incontrando la delegazione palestinese, passo fondamentale verso un prossimo riconoscimento dello Stato. La cosa ha irritato Israele, ma Francesco con fermezza ha fatto capire a Tel Aviv che la «Two State solution» è l’unica via di uscita dal conflitto e non è più questione procrastinabile. Agli ucraini invece ha ricordato che è una vergogna questa guerra «fratricida tra i cristiani». E a Erdogan, il leader turco su cui grava il sospetto di sostenere l’Isis e quindi di favorire la persecuzione di tanti cristiani in Medio Oriente, non ha esitato di ricordare la colpa del genocidio armeno.

Papa Francesco non sogna nuove «buone» egemonie o un mondo modellato sulle visioni della Chiesa. Sogna e lavora per un mondo in cui tutti siano impegnati a costruire ponti. Come ha detto Pietro Parolin, Segretario di Stato vaticano e vero artefice delle strategie diplomatiche d’Oltretevere, se i potenti del mondo si muovono «esercitando un hard power attraverso la potenza economico-finanziaria o le armi», la Chiesa di Bergoglio invece si muove mediante «un soft power fatto di convinzioni e di comportamenti esemplari». E il soft power si dimostra più efficace e più risolutivo del vecchio hard power.

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