La svolta di Boeri
non piace ai politici

A un anno esatto dal suo mandato, il presidente dell’Inps Tito Boeri rilancia la sua riforma delle pensioni. L’economista della Bocconi ha certamente introdotto uno stile nuovo nella conduzione del più grande istituto previdenziale europeo, non limitandosi, come facevano i suoi predecessori, ad assicurare agli italiani che i conti erano in ordine. Boeri ha proposto al governo un progetto tale da essersi attirato critiche di protagonismo. C’è perfino chi dice che tende a sovrapporsi alle competenze del ministro del Lavoro.

Ma che ha fatto, e soprattutto che cosa vuol fare Boeri con le pensioni degli italiani? Sette milioni di cittadini stanno per ricevere le famose «buste arancioni», contenenti la simulazione della propria situazione contributiva. Sapranno, in parole semplici, quanto prenderanno di pensione. Cosa non da poco, non solo sul piano della trasparenza, perché questo tipo di informazioni certamente condizionerà lo stile di vita dei futuri pensionati, come attestano i modelli economici: se so che andrò a prendere una certa pensione allora sarò più o meno propenso a spendere o a risparmiare negli anni a venire.

Ma il progetto più corposo di Boeri è contenuto in un documento dal titolo «Non per cassa ma per equità», presentato nel 2015 al Governo (che a sua volta ha presentato al Parlamento una legge delega per il riordino dell’assistenza pensionistica). Un programma ambizioso che si propone di permettere le ricongiunzioni (in Italia abbiamo quattro pensioni ogni tre pensionati) e rendere il sistema più equo e sostenibile, aumentando la flessibilità in uscita e creando una rete di assistenza a partire dalle persone che hanno più di 55 anni. Quelle che difficilmente riescono a reinserirsi nel mercato del lavoro una volta usciti, con un reddito minimo garantito. Secondo i calcoli dell’Inps quest’ultimo provvedimento permetterebbe di abbassare la povertà in questa fascia di età del 50 per cento. Ma Boeri vuole andare oltre, intervenendo su 5 miliardi di spesa assistenziale destinata ogni anno al 25 per cento della popolazione con redditi elevati.

In questo 25 per cento vi sono privilegi ormai insostenibili: mariti o mogli di manager facoltosi che ricevono un trattamento pensionistico, pensioni altissime nonostante i pochissimi contributi versati, trasferimenti assistenziali a emigrati che vivono in Paesi in cui già ricevono dai governi locali redditi minimi garantiti, come la Germania o la Danimarca. L’epoca delle vacche grasse è finita. E invece paghiamo ancora i contributi assistenziali a chi già riceve un sussidio dagli Stati in cui vivono anche se non possiamo garantire un reddito minimo a tanti italiani. Secondo Boeri ci sono almeno 250 mila pensioni elevate che meriterebbero di essere ricalibrate in base ai versamenti effettivi, a cominciare dai quattromila tra parlamentari e consiglieri regionali che ancora percepiscono lauti vitalizi. Non è più il tempo in cui un pilota Alitalia che aveva perso il lavoro poteva avere diritto a uno «scivolo» di ventimila euro all’anno per sette anni. C’è poi il problema dell’inserimento nel mercato del lavoro dei giovani. Una soluzione è aumentare la flessibilità in uscita, ovvero permettere la pensione anticipata, con una riduzione del due per cento all’anno. Una misura, sostiene Boeri, che sarebbe onerosa solo all’inizio ma che a lungo andare tornerebbe conveniente, essendo le pensioni di importo inferiore. Riuscirà in tutto questo Mister Inps? Per il momento la sua riforma è avvolta da un silenzio assordante, nonostante le sue esternazioni. Anche perché nel mirino sono compresi i vitalizi dei politici. I quali hanno riformato con grandi squilli di tromba quelli a venire, ma non le loro rendite personali. Quelle sono ancora tutte lì.

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