Le tasse si pagano
Il monito del Papa

Le tasse vanno pagate. Evadere il fisco è peccato. Non c’è nulla di nuovo nelle parole di Papa Francesco dette all’Angelus di ieri, anche se è nuova l’esigenza di ribadire questo concetto, che è alla base della dottrina sociale della Chiesa. Il cristiano, ha detto il Pontefice nel commentare un passo del Vangelo di Matteo, «è chiamato a impegnarsi concretamente nelle realtà umane e sociali senza contrapporre Dio e Cesare». Contrapporre Dio e Cesare, ha avvertito, «sarebbe un atteggiamento fondamentalista». E dunque, da parte di ogni credente, è necessario pagare le tasse che Cesare ci chiede. Perché è come se ce lo chiedesse Dio.

Nella prolusione di apertura dei lavori del Consiglio della Conferenza dei vescovi italiani, il 23 gennaio 2012, il cardinale Angelo Bagnasco ricordava: «Evadere le tasse è peccato». E aggiungeva: «Se evadere le tasse è peccato, per un soggetto religioso questo è addirittura motivo di scandalo». Gli evasori fiscali sono dei peccatori per la Chiesa. Il teologo Lorenzetti ha spiegato che è persino giusto denunciare chi evade le tasse dal punto di vista della morale cattolica, purché la denuncia non sia anonima.

Vi è poi il Settimo comandamento, forse il più conosciuto, che impone di non rubare. Tra i comportamenti illeciti che rientrano in tale comandamento vanno annoverate anche la frode fiscale, le spese eccessive, lo sperpero delle risorse pubbliche. Tutti temi, come si vede, estremamente attuali. Naturalmente nella dottrina della Chiesa si parla anche di una fiscalità sussidiaria, ovvero di tasse giuste, correlate all’edificazione del bene comune e non al mantenimento di un regime dittatoriale e, magari, al finanziamento di armi che poi verranno adoperate per la guerra e non per mantenere la pace. Il problema è che soprattutto in Italia la crisi economica ha posto al centro del problema l’imposizione fiscale. Sempre più alta (tra le prime in Europa), a fronte di sempre meno servizi, o quanto meno a servizi che non si vedono, che si percepiscono mal funzionanti o insufficienti. E così sono nati movimenti antifiscali, sull’onda del movimento poujadista (un movimento demagogico che si proponeva di non pagare le tasse) che in Francia negli anni ’50 ebbe un notevole seguito prima che venisse assorbito dal gollismo.

Nel Catechismo della Chiesa cattolica si legge: «La sottomissione all’autorità e la corresponsabilità nel bene comune comportano l’esigenza morale del versamento delle imposte». Dove per bene comune si intende «l’insieme di quelle condizioni della vita sociale che permettono tanto ai gruppi quanto ai singoli membri di raggiungere la propria perfezione più pienamente e speditamente» (secondo la «Gaudium et Spes»).

Sta a cuore alla Chiesa (e dunque a Papa Francesco) un pilastro fondamentale della tassazione, ovvero quell’aspetto redistributivo (togliere ai ricchi per dare ai poveri) che è alla base di ogni principio di solidarietà e di comunità. Così come nelle Chiese giudaiche ed elleniche dell’alba del cristianesimo, quelle che San Paolo visitava nei suoi lunghi viaggi, i ricchi mettevano in comune i loro averi con i poveri durante le prime esperienze di comunità.

È dunque sulla base di questa premessa che la Chiesa riconosce allo Stato un diritto naturale d’imposizione fiscale, basato sul precetto evangelico del dare «A Cesare quel che è di Cesare». Il cristiano non è di questo mondo ma deve vivere come un cittadino di questo mondo, come spiega la «Lettera a Diogneto». Ma il diritto di Cesare non è illimitato: deve sottostare a principi basilari quali, prima di ogni altro, l’equità.

Ecco perché il Papa ha ribadito all’Angelus il concetto che le tasse vanno pagate. Quello che è cambiato, come dicevamo, è il contesto in cui sono state pronunciate quelle parole. La crisi ha rinfocolato gli egoismi individuali, abilmente alimentati dalle politiche demagogiche in cui ci troviamo. Pagare le tasse non è più percepito come un servizio al bene comune ma come qualcosa di vessatorio, di cui non si vedono gli scopi e i risultati se non quelli di foraggiare una classe politica al potere. Giudizi spesso ingenerosi, che però attengono alla valutazione che si ha della politica di oggi, spesso immobile, incapace di dare risposte dirette ai bisogni dei cittadini.

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