Padre Dall’Oglio
Gesuita scomodo

Ci manca da quattro anni. Quattro anni di dolore e di misteri, dentro i quali padre Paolo Dall’Oglio è stato inghiottito e fatto sparire perché della tragedia siriana, allora all’inizio, lui aveva già indicato la road map drammatica che l’avrebbe segnata. La tragedia era iniziata da poco più di un anno nel luglio del 2013 e quel gesuita scomodo e cocciutamente deciso a camminare sulla frontiera che costruisce i ponti e non i muri, che altri invece s’attrezzano a progettare nei cuori e nelle geopolitiche, era un problema, perché la sua vita, le sue scelte, le sue parole erano un messaggio chiaro contro i totalitarismi e i fondamentalismi laici e religiosi.

Padre Paolo temeva più di tutto che fosse la paura a prendere il sopravvento nelle primavere arabe. E così è accaduto. Sono fallite quasi tutte perché nessuno ha osato gettare il cuore oltre l’ostacolo delle identità, oltre quello che sembrava essere l’unico bene di consumo e cioè lo scontro naturale delle civiltà, da contemperare, ma non da sbaragliare definitivamente.

Invece lui osava. Ha sempre osato fin quando decise, ha scritto, di accettare «il corpo a corpo con l’Altro, Allah» e di consolidare tra le mura dell’antico monastero di Deir Mar Musa, sulla riva del deserto, una comunità piccola e fragile, luogo di incontro senza tante pretese, pietre precarie come la tenda di Abramo, dove andare oltre le narrazioni dei conflitti in punta di religione e di spada, assumendone la complessità, rivelandone le ragioni e le distorsioni, insomma lucidando una memoria che invece si è sempre teso inopinatamente a semplificare per muovere guerre e per porre il proprio Dio sopra quello dell’altro. A Mar Musa ci si riconosceva fratelli oltre le paure. Padre Paolo percorreva le strade della Siria, parlava con gli studenti perché potessero scoprire un’altra storia possibile. Incontro, dialogo, riflessioni per provare almeno a girare la pagina delle tentazioni identitarie, assai amate dal potere, e degli inganni della divisione e dell’odio.

È stata una bella lezione. La si rintraccia nei suoi libri e la si può vedere squadernata nella sua interezza semantica e nel suoi concetti cruciali nel discorso di Papa Francesco all’università di Al-Azhar al Cairo, pochi mesi fa, riassunto sublime del pensiero del suo confratello gesuita siriano fatto sparire perché intendeva includere e non separare. Aveva ben chiara in testa la responsabilità di tutti nel dramma siriano, già quattro anni fa. Aveva passato trent’anni in Siria, conosceva le cose.

Dava fastidio al regime, alle guerriglie e anche agli uomini di religione che cercano protezione più che dialogo. Espulso da Damasco, non aveva smesso di denunciare l’ipocrisia di un Occidente che preferisce la sicurezza garantita dai dittatori criminali in aree turbolente. Aveva insistito sulla riconciliazione politica tra sciiti e sunniti, come premessa per una democrazia dove i diritti civili delle minoranze potessero avere salvaguardia effettiva e non essere materia di estenuante negoziato a favore di alcuni e a danno di altri. Aveva invocato una Corte internazionale per far luce sui crimini di tutti e gli andava stretta la categoria per cui l’Islam è sempre radicale e gli islamici terroristi, mentre i buoni stanno a guardare o nel migliore dei casi tentano di educarli sotto una pioggia di bombe.

E non gli piaceva affatto che i cristiani non collaborassero all’emancipazione dei musulmani dalle loro catene ideologiche, in nome della protezione del principe di turno. Padre Paolo sarebbe stato contento del discorso di Bergoglio al Cairo. Ci piace pensare che lo abbia sentito in attesa di tornare.

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