Pd diviso, a rischio
il governo di tregua

Il più attento osservatore dei lavori della direzione del Partito democratico che si terrà oggi sarà sicuramente Sergio Mattarella. Il Capo dello Stato guarderà agli esiti del confronto nel suo ex partito prima di prendere, probabilmente domani, la nuova «iniziativa» nel tentativo, sempre più affannoso, di risolvere la crisi. Certo al Quirinale non si aspettano che venga rovesciata la linea dettata da Matteo Renzi nella ormai celebre intervista a Fabio Fazio: nessun appoggio ad un governo guidato da Luigi Di Maio o da Matteo Salvini.

Infatti, per quanto possa essersi erosa la «presa» di Renzi sul partito, la maggioranza resta ancora con lui, sia in direzione che nei gruppi parlamentari. Lo si è visto con la raccolta di firme promossa da due renziani di rango, i capigruppo parlamentari Graziano Delrio e Alessandro Marcucci, che è riuscita a coinvolgere la stragrande maggioranza dei deputati e dei senatori. Sulla base di quel testo, il Pd resta e resterà all’opposizione di un eventuale (sempre più eventuale) governo «politico» dei «vincitori senza vittoria» M5S e Lega.

No, al Quirinale interessa piuttosto sapere se il Pd riuscirà a rimanere unito o se invece, come molti temono, la maggioranza raccolta attorno all’ex segretario e le varie minoranze si spaccheranno in maniera irrimediabile sulla linea politica «aventiniana» dettata da Renzi. Archiviata la speranza che davvero i democratici potessero dare un appoggio anche esterno ad un governo di grillini, al Quirinale sperano di non vedere un Pd diviso che, agli occhi di Mattarella, sarebbe il peggior viatico per il governo «istituzionale», o «di tregua» che si prospetta ogni giorno di più come l’unica soluzione dopo il fallimento di tutte le trattative tra i partiti. Un simile esecutivo patrocinato direttamente dal Capo dello Stato avrebbe bisogno del sostegno convinto di una parte consistente del Parlamento, ed è essenziale che il Pd vi concorra unito.

Il problema è che il partito del centrosinistra vive la sua ennesima crisi interna, resa ora più drammatica dal crollo elettorale di marzo seguito alla sconfitta referendaria dello scorso dicembre. Un partito che comincia seriamente a temere di non riuscire a sopravvivere a questa bufera, e di scendere nell’inferno dei numeri elettorali ad una cifra, dell’irrilevanza politica, dell’insignificanza parlamentare. È probabile che solo il naufragio degli scissionisti che hanno dato vita a «Liberi e Uguali» faccia desistere i vari capicorrente anti-renziani dall’andarsene dal partito, ma all’interno la battaglia comincia a diventare quasi senza prospettive: Renzi è il padrone della maggioranza del ceto dirigente (e probabilmente ancora della base) ed esercita questo suo potere senza un mandato esplicito, cui ha rinunciato all’indomani della sconfitta elettorale.

Il senatore di Scandicci detta la linea al partito anche ruvidamente e senza porsi il problema di indebolire il segretario reggente Martina sconfessato nel suo tentativo di dialogo «preventivo» con i Cinque Stelle che stava sperimentando insieme a Dario Franceschini, Andrea Orlando, Michele Emiliano, Piero Fassino e tanti altri. Proprio costoro chiederanno oggi in direzione un voto di fiducia a Martina, per rafforzarlo nei prossimi passaggi istituzionali. Ma i renziani sembrano restii ad un simile gesto, e non è escluso che pensino a sostituire il reggente. Mossa azzardata che esacerberebbe ulteriormente gli animi, già parecchio turbati anche dai siti on line di incerta provenienza dove si pubblicano le liste di proscrizione degli esponenti del partito rei di voler tentare un dialogo con il Movimento Cinque Stelle.

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