Per un’Italia competitiva
fare come Milano

Il sindaco di Milano ha lanciato il suo appello già a gennaio: se l’Italia non ci segue, Milano dovrà rivolgersi all’Europa. La città più città d’Italia, per dirla con lo scrittore siciliano Giovanni Verga, è uscita dalla crisi in termini di innovazione, efficienza ed inclusione. Ha lanciato il suo modello. Invece di ritrarsi, la capitale lombarda e i territori del Nord della penisola hanno accettato la sfida della sostenibilità, dei reinserimenti manifatturieri, della ricerca e dello sviluppo legati alla riqualificazione professionale. Se il Paese ora può vantare una crescita del Pil è perché ci si è rimboccati le maniche. Ma Milano non può correre e quindi tenere il passo con la concorrenza se il resto d’Italia diventa una zavorra.

Sono passati quattro mesi e Carlo Bonomi, presidente di Assolombarda, ritorna sull’argomento. In un’intervista dei giorni scorsi dice a chiare lettere che Milano ha bisogno dell’Italia. Per il semplice motivo che non si può allargare la forbice con chi a sud di Firenze peggiora le sue condizioni economiche. Con un Paese a due velocità anche Milano finirà con l’essere risucchiata verso il basso.

Ed è questa l’angoscia che attraversa le classi dirigenti della parte produttiva della società italiana. Parliamo di amministratori, imprenditori, gente che è proiettata verso l’Europa, che sente le affinità con i Paesi confinanti e vorrebbe reagire senza dover fare quotidianamente i conti con una politica immobile, una burocrazia tanto invadente quanto impreparata ad affrontare i processi decisionali in modo veloce ed efficiente. Questo il balzello che paga colui che vuol rendersi attivo e contribuire con spirito imprenditoriale al bene comune. È un fatto che il Sud d’Italia dal 1951 al 1975 ha fatto progressi ed ha migliorato le sue prestazioni economiche anche in virtù dell’emigrazione all’estero. Ma il vero risultato è stato l’ingolfamento dell’apparato burocratico. Avere un posto fisso nell’amministrazione pubblica era come ottenere una sinecura. Per decenni l’obiettivo è stato «diventare di ruolo» il che voleva dire avere garantito a vita il posto senza che nessuno si prendesse la briga di verificare il rendimento. La politica assistenziale ha tamponato il divario fra Nord e Sud ma non lo ha sanato. Il risultato è il mega debito che ci portiamo addosso e il fallimento della politica clientelare. Non si può continuare su quella strada ma è ancora la mano pubblica che rende la vita al Sud precariamente tollerabile. Secondo gli studi di Perotti e di Abramavel del 2008 i falsi invalidi sottraggono alle casse dello Stato 8 miliardi circa all’anno. Sui forestali di Sicilia e Calabria superiori per numero a quelli del Canada si è detto all’infinito. Ma non è successo nulla. I giornali ne scrivono, qualche politico lancia l’invettiva contro la mala amministrazione e poi tutto si quieta. Il motivo è chiaro: che fare delle migliaia di assistiti in forma incongrua ed a volte illegale una volta razionalizzata la spesa, ridotto lo spreco, combattuto l’illecito? Ecco una cosa che ai politici fa venir la pelle d´oca. Le strade si riempirebbero di infuriati cittadini con i forconi in mano.

Vi sono stati nel recente passato casi simili e la brace cova ancora sotto la cenere. Fatto zero l’assistenzialismo, come rilanciare dunque un Sud competitivo? Roma tace ma i conti non aspettano. L’Unione Europea ha la sua ricetta: tagliare e risparmiare. Per non cadere sotto le grinfie di una troika o trovarsi al bivio di una uscita dall’euro il prossimo governo farà bene a dire la verità al Paese: dobbiamo essere competitivi, e il rimedio è uno solo: darsi da fare. Milano insegna.

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