Reddito garantito
nel Paese dei sogni

Colpita dal fuoco di sbarramento del realismo critico anche internazionale, la prima ondata di promesse elettorali ha già perso il pezzo più velleitario, l’uscita dall’euro, cancellata dai 5Stelle e sotto tiro altrove, al bivio tra Le Pen e Merkel. Anche l’abolizione della Fornero è diventata un ambiguo «azzeramento». Quanto alle due principali opzioni economiche restate in gara – reddito di cittadinanza e flat tax – c’è qualcosa al di là della mancanza di soldi, qualcosa di tipo più etico politico: le implicazioni sul modello di società, e di fisco.

Il reddito di stato è coerente con l’utopia grillina degli esordi, quando Di Maio non andava ancora a Cernobbio. È un omaggio residuale alla post verità rivoluzionaria: aprire i Parlamenti come scatolette di tonno, decrescita felice, e appunto vitto e alloggio assicurati per legge. Tre volte Natale, direbbe Dalla, e tre volte onestà.

Ma il tipo di società che scaturirebbe da una simile scelta è evidente: un mondo onirico in cui chi ha sudato una pensione o un lavoro, verrebbe affiancato o superato da chi non ha mai versato contributi o timbrato cartellini.

Comporterebbe naturalmente la cancellazione da subito di tutto un castello di garanzie, casse integrazioni, sussidi geografici e settoriali, conquiste sindacali, indennità, esenzioni, incentivi, 80 euro ecc. Un castello, è vero, un po’ kafkiano e spesso non proprio liberale, che non si farebbe smantellare senza furibonde resistenze. Rinunciare a quel che si ha in nome della gradualità di quello che si avrà, è ben difficile in una democrazia europea che ha chiamato welfare tutto questo. Possibile solo in un’autocrazia russa o turca.

E diffidare dalle imitazioni, tipo reddito di dignità, che costano ancor di più, perché cercano di mettere insieme il merito individuale e l’appiattimento collettivo. Meglio allora il piccolo reddito di inclusione, che almeno c’è già.

La flat tax è materia più seria, corrisponde ad una filosofia Stato-cittadino opposta a quella assistenziale. Deve essere adattata al principio costituzionale di progressività introducendo correttivi, ma anche per questo ha senso solo se è molto bassa.

Per produrre davvero uno choc e abbattere l’evasione aveva ragione Salvini: fissarsi almeno al 15%. La media oggi è al 27% e su 40 milioni di contribuenti, 10,3 milioni non sborsano una lira, la tassazione si concentra su 4,5 milioni di soggetti, 4 imprese su 10 non versano un euro di imposte. Ragione per la quale ci sono poi soggetti o aree del Paese che arrivano a pagare più del 50%.

Ma il rischio è togliere poco ai redditi medio bassi e molto a quelli alti, visto che in Italia il 5% possiede il 40% della ricchezza. Berlusconi la propone al 23%, e in concreto questo significa risparmiare 534 euro per chi guadagna 18 mila, e 10 mila euro per chi è a 80 mila.

Verissimo che le tasse basse possono rimettere in moto un circuito consumi-investimenti, ma attenti: negli Usa, per il rientro di 1.300 miliardi parcheggiati all’estero, Trump prevede un condono generoso. La pensa così anche Berlusconi. Ma vogliamo davvero altri condoni?

Un economista liberale come Nicola Rossi non scende sotto il 25%, ma aumenta l’Iva di 3 punti e l’Ires di 1, diminuendo solo la finanza oggi al 26%, e soprattutto prescrive la cancellazione di molto welfare, introduce la sanità a pagamento per i più abbienti e prevede un taglio alla spesa pubblica di 70 miliardi.

Può riuscire un’impresa del genere in un Paese tripolare in cui nessuno vincerà le elezioni?

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