Ridare fiducia
al capitale umano

Gli statistici l’hanno definita «povertà assoluta»: indica la condizione di famiglie o persone i cui redditi non garantiscono livelli di consumi essenziali per la sussistenza. In concreto, sono quei nuclei dove ad esempio non riescono a mettersi a tavola due volte al giorno. Detta così sembra una condizione estrema, che tocca solo fasce marginali della popolazione, in particolare difficoltà sociale. Invece i numeri smentiscono drammaticamente questa lettura un po’ accomodante: in Italia quasi 4,6 milioni di persone si misurano quotidianamente con questa mancanza di beni primari.

Sono i dati resi noti tempo fa dall’Istat e che non conoscono zone franche: neppure le zone d’Italia più floride sono risparmiate da questo fenomeno. A Bergamo, ad esempio, le famiglie in queste condizioni hanno superato le 20 mila, come ha dimostrato un’analisi fatta sui dati Istat dalla Cisl provinciale. Se si vanno poi ad analizzare in profondità i dati, ci troviamo di fronte a realtà sconcertanti.

I soli nuclei risparmiati, nel periodo dalla crisi, da questo impoverimento sono quelli il cui capofamiglia ha più di 65 anni. Man mano che si scende nella scala anagrafica, ci si trova davanti a numeri sempre più drammatici. Facciamo qualche esempio: tra i nuclei con capofamiglia con meno di 44 anni di età, dal 2008 ad oggi, il tasso di povertà assoluta è passato dal 3,2% all’8,1% (quindi ora è quasi il doppio della media nazionale); sotto i 34 anni siamo addirittura oltre il 10% (ed era «solo» l’1,9% otto anni fa). Insomma la crisi sta mettendo in ginocchio i nuclei più giovani, quelli dove oltretutto vivono più bambini: oggi in Italia ci sono un milione di bambini per i quali è a rischio l’accesso ai beni di prima necessità.

Ci siamo soffermati sui numeri, perché mai come in questo caso i numeri «parlano». Anzi «gridano», descrivendo una situazione che non solo non è da Paese sviluppato qual è l’Italia, ma che soprattutto apre scenari inquietanti sul futuro: se per milioni di famiglie è un problema procurarsi di che vivere per il domani, com’è possibile che possano progettare un futuro per se stesse e per i propri figli?

Non è una situazione solo italiana: le dinamiche della crisi, con asprezza più o meno acuta, sono uguali dappertutto e spingono pezzi di classe media verso la marginalità. Quella che è un’eccezionalità italiana è invece il non aver messo in campo la misura che tutti i Paesi europei hanno adottato per cercare di arginare la «povertà assoluta» (anche la Grecia, ultima, lo ha adottato a partire a gennaio). Si chiama reddito di inclusione ed è un assegno che viene dato alle famiglie che si trovano in queste condizioni a cominciare da quelle che hanno minori a carico. Il governo Renzi ha varato misure contro la povertà. È stato varato da settembre scorso il Sia, ovvero Sostegno per l’inclusione attiva, che prevede sussidi vincolati al fatto che i destinatari seguano progetti sociali e lavorativi personalizzati e che riguarderà 200 mila famiglie con minori. Ma la misura che le forze sociali che si sono coalizzate nell’Alleanza contro la povertà chiedono e che il ministro dell’Agricoltura Maurizio Martina ha annunciato di voler mettere all’ordine del giorno del governo urgentemente è il Rei, sigla che definisce il reddito di inclusione. Il Rei dovrebbe essere destinato a tutte le persone che si trovano in una situazione di povertà assoluta, fornendo loro un contributo monetario, per affrontare le difficoltà economiche di oggi, insieme agli strumenti per costruirsi un domani migliore: quindi formazione professionale, nidi per i figli, sostegno psicologico... Non va quindi considerata come una misura assistenzialistica, ma come ossigeno garantito a una parte di popolazione in età attiva, per permetterle di rimettersi in movimento e di costruirsi un futuro. È una misura che andrebbe definita «rigenerativa» poiché può restituire alla società tutta un capitale umano e sociale oggi paralizzato dalla povertà e dalla paura.

© RIPRODUZIONE RISERVATA