Risposte urgenti
al terrore globale

Dalle nostre parti si parla a vanvera. Dalle loro, cioè dalle parti dei terroristi, si procede come sempre. È più che scoraggiante continuare a leggere e sentire i discorsi sui foreign fighters che stanno per tornare e mettere a ferro e fuoco l’Europa o, ancor più ridicolmente, sugli attentatori che vorrebbero passare i confini sui barconi dei migranti. Come se non sapessimo che i foreign fighters europei sono tutti censiti dalle polizie e non possono rientrare senza attrarre l’attenzione. Come se potessi credere a terroristi disposti a rischiare la vita nel Mediterraneo, dove l’anno scorso sono annegate 5 mila persone, o a passare un anno o due in uno dei tanti punti di identificazione e raccolta dei migranti. Nel frattempo, da New York (e ancor prima da Barcellona, Londra, Nizza…) ci arriva la solita lezione. Non c’è alcuna centrale strategica del terrore, tanto meno l’Isis, che ha svolto il compito per cui era stato inventato dalle petromonarchie del Golfo Persico (disgregare la Siria e l’Iraq sciiti), ha fallito e sta per essere disperso. I terroristi sono arrivati nei nostri Paesi con un comodo aereo, per i soliti canali e con tanto di documenti, come nel caso di Sayfullo Saipov, l’uzbeko che ha falciato turisti e passanti sulla pista ciclabile di Manhattan e che viveva negli Usa dal 2010.

E com’è stato prima di lui per gli stragisti di Barcellona, Londra, Manchester, Nizza, Parigi, e anche per coloro che hanno colpito in America, per esempio nella base militare di Fort Hood nel 2009 (16 morti) o nella discoteca di Orlando nel 2016 (52 morti). Senza contare che in molti casi gli assassini erano addirittura nati, cresciuti ed educati negli Usa o in Europa.

Finché penseremo che certi squilibrati vengano da Marte o siano gli inviati di qualche specie di Spectre straniera, di certo non verremo a capo del problema. Dobbiamo invece cominciare a occuparci di questo terrorismo come di un terrorismo nostro, autoctono, occidentale. Qualunque sia l’ideologia che lo ispiri, anche se chi colpisce si affretta a gridare «Allah è grande», anche se a ogni attentato arriva puntuale la rivendicazione fasulla dell’Isis. Perché l’inserimento di «altri», di uomini e donne arrivati da altri Paesi e altre culture è uno dei tratti tipici del mondo occidentale. Di più: è uno dei tratti che l’hanno fatto diventare la parte di mondo che meglio riesce a coniugare i diritti dell’individuo e il benessere del gruppo.

Gli attentati alle Torri Gemelle e l’incursione di Sayfullo Saipov hanno in comune una cosa sola: la natura internazionale di New York. Nel 2001 i kamikaze di Al Qaeda uccisero in un giorno quasi 3 mila persone che erano nate in 90 Paesi diversi. Il nostro Dna evolve in quella direzione, ci piaccia o no. L’anno scorso, in Italia, si è avuto il minimo storico di nascite: 486 mila, delle quali quasi il 20% dovuto a madri straniere. Possiamo immaginare il nostro Paese con un bambino su cinque in meno? E così via, di esempio in esempio per tutta Europa.

È ovvio che questa condizione impone attenzioni e contromisure. Da un lato interne: i lupi solitari che hanno colpito in Europa e negli Usa sono diventati terroristi qui, nei nostri Paesi. A un certo punto della loro vita, qualcosa o qualcuno ha innescato l’impulso omicida. Chi hanno incontrato? Quali lezioni perverse hanno ascoltato? Dobbiamo quindi occuparci, per restare al terrorismo islamista, di chi popola le moschee e i centri di preghiera, di chi vi predica, di quali traffici vi abbiano luogo. Pensando all’Italia, è inaccettabile che la costruzione di moschee sia frutto di iniziative e denari privati i cui intenti sono così difficili da verificare. Se una parte della popolazione ha fede islamica e ha bisogno di pregare, sia lo Stato a fornire il luogo giusto, esercitando su di esso e su chi lo frequenta i doverosi controlli.

Dall’altro lato le precauzioni devono essere esterne. Mai come oggi la politica estera ha riflessi sulla politica interna. È possibile, per esempio, avere normali relazioni diplomatiche con Paesi che costruiscono basi religiose sul nostro territorio ma non permettono la costruzione di una chiesa sul loro? È possibile far finta di fare la guerra all’Isis per due anni e più (la Jugoslavia di Milosevic fu abbattuta in pochi mesi, l’Iraq di Saddam in poche settimane) e poi lamentarsi se il falso mito del Califfato agisce su menti deboli e spiriti tormentati?

Correr dietro a tutti i pazzi con pulsioni assassine è impossibile. Capire che quando parliamo di globalizzazione non intendiamo solo mangiare angurie a Natale e investire in tre secondi alla Borsa di Tokyo invece è possibile. Di più: è indispensabile.

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