Roncalli, il Papa
della pace necessaria

Giovanni XXIII è stato il Papa della pace. Della «necessità» della pace per il futuro dell’umanità. In modo profetico, comprese che il fatto nuovo emerso dalle macerie del secondo conflitto mondiale era una nuova condizione umana, generata da un pericolo inconcepibile fino all’esplosione di Hiroshima (1945): la possibilità dell’autodistruzione dell’umanità.

Oggi, nel tempo della «terza guerra mondiale», il suo magistero della pace appare, per usare un termine caro al nostro vescovo Francesco, un «grido» volto a suscitare, attraverso il dialogo, una coscienza planetaria. Il Papa affermava: «Gli esseri umani vivono sotto l’incubo di un uragano che potrebbe scatenarsi a ogni istante con una travolgenza inimmaginabile. Giacché le armi ci sono; e se è difficile persuadersi che vi siano persone capaci di assumersi la responsabilità delle distruzioni e dei dolori che una guerra causerebbe, non è escluso che un fatto imprevedibile ed incontrollabile possa far scoccare la scintilla che metta in moto l’apparato bellico. Inoltre va pure tenuto presente che se anche una guerra a fondo, grazie all’efficacia deterrente delle stesse armi, non avrà luogo, è giustificato il timore che il fatto della sola continuazione degli esperimenti nucleari a scopi bellici possa avere conseguenze fatali per la vita sulla terra».

Proprio nel momento di maggiore pericolo, Giovanni XXIII pose alla base di ogni possibile visione e azione per il futuro la necessità di avere quella che Papa Francesco, nel suo discorso in occasione della Giornata mondiale della pace del 2014, ha definito la «consapevolezza dell’unità e della condivisione di un comune destino fra le Nazioni della Terra».

La minaccia nucleare ha prodotto appunto un fatto nuovo: la comunità di destino dell’umanità intera. Dopo Hiroshima, l’arma nucleare è diventata una sorta di spada di Damocle, sospesa sulle teste di tutti gli umani. Oggi il fragile controllo di questa minaccia non è neppure più concentrato nei veti incrociati delle due superpotenze dell’ordine mondiale congelato dalla Guerra fredda, ma è disseminato nei molteplici arsenali del nuovo disordine mondiale, surriscaldabili in forme imprevedibili da poteri che sfuggono a ogni controllo e dalle forme inedite del nuovo terrorismo globale.

Il valore morale della pace, da nobile opzione possibile che è sempre stato, è diventato condizione «necessaria» per la stessa possibilità di futuro della «famiglia umana» nell’età globale. L’umanità oggi, per la prima volta, «deve» uscire dall’età della guerra. Il vero rischio è che non ci possano più essere vincitori e vinti, ma solo vinti. È questa la consapevolezza evocata da Giovanni XXIII. «L’umanità deve» uscire dal paradigma dei «giochi a somma nulla» («vinco io, perdi tu») per generare un paradigma dei «giochi a somma positiva» («o vinciamo tutti assieme, o perdiamo tutti assieme»).

Oggi, nella difficile gestazione di una civiltà planetaria e nell’ottavo decennio dell’era atomica, appare in tutta la sua potenza profetica il magistero del Papa della pace e la prospettiva di speranza che ha nutrito: concepire l’appartenenza comune a un intreccio globale di solidarietà come l’unica condizione possibile per il futuro dell’umanità; trasformare il dato di fatto dell’interdipendenza planetaria nel compito di costruire una «civiltà della Terra», di inaugurare un’evoluzione antropologica verso la convivenza delle diversità nell’unità della «famiglia umana».

Per questo, più di cinquant’anni fa, mentre il mondo vacillava sull’orlo di una crisi finale, Giovanni XXIII si rivolse non solo a tutto il mondo cattolico, ma «a tutti gli uomini di buona volontà». Così come oggi Francesco, di fronte alle crisi globali, si rivolge «a ogni persona che abita questo pianeta», proponendosi «specialmente di entrare in dialogo con tutti riguardo alla nostra casa comune», perché «l’interdipendenza ci obbliga a pensare a un solo mondo, a un progetto comune».

E perché per la prima volta nella storia umana l’ecumene terrestre, la «grande famiglia umana» è divenuta realtà concreta, e la Terra, secondo la bella espressione di Edgar Morin, è diventata la «Terra patria» dell’umanità.

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