Soli si perde e il Pd
fa una scelta radicale

Noi italiani siamo abbastanza abituati all’avvio rumoroso e zoppicante delle campagne elettorali: già nella prima Repubblica i partiti si dilaniavano nelle baruffe sulle liste, le alleanze, le candidature e le firme per presentarsi alla competizione. Di queste contorsioni i radicali sono stati più volte protagonisti, regolarmente chiedendo agli altri partiti, all’opinione pubblica, a chissà chi altro, un qualche aiuto per consentire a loro di stare in partita. Lo facevano già prima degli anni ’90, con tanto di scioperi della fame pannelliani e proteste contro «il regime», e per le Politiche 2018 non si sono smentiti: un gran battage di Emma Bonino per protestare contro la nuova legge elettorale con le sue procedure in materia, appunto, di raccolta delle firme, obbligatoria per chi non sia già in Parlamento.

E, insieme, per minacciare il forfait e soprattutto la rottura dell’alleanza con il Partito democratico. Già l’instancabile Piero Fassino si stava adoperando per risolvere l’ultimo dramma radicale trovando in qualche modo le firme necessarie, quando è apparso Bruno Tabacci. L’ex democristiano lombardo di lunghissimo corso ha portato in dono alla Bonino il suo simbolo: «Centro Democratico» che, essendo già in Parlamento come estrema derivazione di quella che fu «Scelta Civica» di Mario Monti, è esentato dalla raccolta delle firme.

Così la Bonino è salva e soprattutto è salva (ma con i radicali mai dire mai) l’alleanza con Renzi: ci sarà una lista comune laico-radical-democristiana, per quanto questo possa apparire strambo, e il Pd potrà dire di avere accanto a sé una lista alleata sul versante sinistro. Il percorso è quantomai accidentato, il risultato elettorale di una simile operazione è del tutto imprevedibile, ma aiuta simbolicamente il Pd a non restare solo.

Non è finita: ha problemi anche la «gamba di centro» (che Renzi e Fassino hanno sollecitato in ogni modo) quella cioè che riunisce i seguaci di Casini con ex montiani come il trentino Dellai ed ex berlusconian-alfaniani come la ministra Lorenzin. Essi vorrebbero presentarsi con il simbolo della Margherita che fu, ma il suo ultimo leader, Francesco Rutelli, li ha immediatamente diffidati dal farlo, con tanto di lettera di avvocato. Non è chiaro come finirà e se sarà necessario anche qui un salvatore alla Tabacci o il colpo di genio di un grafico pubblicitario.

Il punto però è che il Pd, pur avendo fatto una legge elettorale (su cui il governo ha addirittura posto la questione di fiducia) che fa delle coalizioni la chiave del successo, non riesce a costruirsi intorno una coalizione degna di questo nome.

Il Rosatellum funziona così: se nei collegi uninominali sei alleato con altri, puoi vincere; se corri da solo, è sicuro che perdi. Sembrava una norma fatta giusto giusto per i grillini che aborrono (anzi: aborrivano) le alleanze, e invece si sta rivelando una norma anti-Pd scritta dal Pd. La cui capacità attrattiva sembra direttamente proporzionale al gradimento che Matteo Renzi, secondo i sondaggi, raccoglie nel corpo elettorale: più scende quello, meno alleati si avvicinano, e chi lo fa pone problemi e condizioni, apre trattative sottobanco.

Per rincuorare le truppe ieri Graziano Delrio ha detto che i ministri si presenteranno tutti nei collegi, e quindi si esporranno al massimo pericolo: «Ci mettiamo la faccia perché possiamo rivendicare il buon lavoro fatto». Ma questo poco rassicura chi ministro non è e magari non ha neanche una rete di protezione nelle liste bloccate del proporzionale.

Bisognerà vedere se nei prossimi mesi Renzi, che in queste settimane di festività si è tenuto defilato anche sulla vicenda Bonino, saprà invertire la rotta. Ma è una sfida che Renzi e il Pd affronteranno da soli: dagli alleati che si ritrovano hanno ben poco da sperare.

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