Sulla sicurezza
il Pd è disarmato

Tutti apprendisti sociologi, dopo il voto del 4 marzo. E tutti sulla cattedra a spiegare, soprattutto al Pd, quali sono i problemi veri del Paese, tutti a insegnare il mestiere alla sinistra, che non avrebbe capito nulla di come vanno le cose nel mondo reale e va un po’ rieducata. E giù grandi dissertazioni sulla povertà, sulle periferie, sulla solitudine. Solo un vecchio signore che di sinistra se ne intende, Giorgio Napolitano, ha evitato i massimi sistemi, e ha usato un termine certo sgradevole agli orecchi del senatore Renzi, parlando di «autoesaltazione» dei meriti governativi, cogliendo un punto forse più decisivo.

E cioè che le statistiche della crescita non vincono le elezioni e che le briciole del pollo di Trilussa non saziano, anzi fanno arrabbiare chi vede i quasi due polli del vicino di casa. Insomma, nella società mobile, liquida di oggi, il governo ha sempre un po’ torto, perché la sua rigidità istituzionale fa troppo establishment. E d’altra parte é vero che se complessivamente un po’ si cresce dopo la grande crisi, contemporaneamente le distanze sociali aumentano. I miei 80 euro in più sono nulla rispetto agli 800 in più di qualcun altro. E non mi sta bene che chi governa se ne faccia merito. Pazienza se l’alternativa é solo l’invocazione di un «cambiamento», perché funziona agli occhi di chi non sta bene, e poco importa che i cosiddetti esperti (establishment anche loro) facciano notare che é un termine un po’ troppo generico e che le promesse miliardarie sono irrealizzabili. Se l’Europa mette veti, al diavolo l’Europa.

Eppure passa da qui un punto essenziale, culturale prima che politico, e cioè il senso stesso dell’esistenza di una sinistra di governo, o di una sinistra tout court, ovunque in Europa ai minimi storici. Se ne può fare a meno, proprio mentre l’esempio ungherese ci mostra chiaramente cosa significa il populismo-sovranismo quando si realizza? A Budapest i socialisti sono ora pura testimonianza e si contrappone all’autocrate Orban solo un partito ancor più di destra, razzista e antisemita. Si materializza lo spettro della democrazia illiberale. La democrazia che taglia le proprie radici, come ha scritto Ezio Mauro, un brivido sconosciuto per la libertà, una sfida alla vecchia Europa del Pse e del Ppe, arnesi in disuso. Resta, è vero, il coraggioso esempio controcorrente del socialista Macron diventato capo di un movimento liberalsocialista, di cui però solo ora si comincia a discutere in Italia per merito di Sandro Gozi.

Ancora sotto choc, il Pd deve elaborare il lutto molto in fretta. Ha due possibilità: considerare il 4 marzo la prova di un errore strategico, tale da giustificare un ritorno all’antico, ignorando il fallimento di LeU, ovvero analizzare i tanti errori tattici e rielaborare la politica degli anni di governo, considerandola non sbagliata ma insufficiente e non convincente.

E di fronte ai nodi sociali da cui abbiamo preso le mosse, impegnarsi a scioglierli, anziché tagliarli sbrigativamente come hanno promesso quelli che hanno vinto. E le soluzioni non sono le stesse ovunque. Nel nord produttivo, Di Maio ha perso voti rispetto al 2013 in Piemonte, Liguria, Veneto e ancor di più in Friuli. In queste aree non erano decisive periferie, povertà, solitudini.

Prevaleva il mantra della sicurezza. In Friuli i 5Stelle andranno di nuovo male alle regionali perché la sanità funziona, le dentiere le paga la Regione e Trieste é una città mitteleuropea modello. Vincerà dunque la Lega, e il Pd dovrà interrogarsi su quali cose di sinistra vanno fatte per immigrazione e integrazione, visto che il buonismo si presta solo ad ironie.

Il buon governo certo non basta. Nei distretti industriali più floridi, che apprezzano jobs act e legge Fornero, la Lega ha superato il 40%. Gli operai dell’Alcoa, da mezzo secolo in crisi stanno per entrare nell’azionariato aziendale e quelli di Pomigliano d’Arco appartengono ad un’area industriale che poteva essere un deserto, e oggi funziona. Gli uni e gli altri hanno comunque votato in massa 5Stelle. Non si fidano, forse non si fidano neppure quelli dell’Embraco a cui Calenda sta restituendo il futuro.

Scalare questa montagna di sfiducia è il destino immediato della sinistra, se vuole sopravvivere.

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