Tormenti Pd, ricomincia
la campagna elettorale

Era da tempo che i dirigenti del partito democratico non si riunivano a discutere come hanno fatto ieri nel corso della direzione allargata. Da mesi infatti Matteo Renzi e la minoranza – o le minoranze – del Pd litigano senza sosta, ma lo fanno da lontano, attraverso dichiarazioni, interviste, convegni di corrente: per dire, Pierluigi Bersani è tornato a prendere la parola in direzione dopo un paio d’anni di silenzio. Ma non per questo le posizioni si sono riavvicinate, anzi: lo stato di estrema tensione tra le correnti, paragonabile a quello dei separati in casa, condizionerà ancora a lungo il partito su cui grava il peso del governo del Paese in un momento tanto difficile.

Le conclusioni di ieri non hanno scacciato il fantasma della scissione «a sinistra» apertamente minacciata da Massimo D’Alema e non più esclusa da Bersani. C’è probabilmente un’unica possibilità perché quella scissione non avvenga: che la sinistra riesca a cacciare Renzi dalla segreteria e a metterci qualcuno di suo, che si chiami Michele Emiliano o il governatore della Toscana Rossi o l’esangue pupillo di Bersani Roberto Speranza o, più probabilmente, l’attuale ministro della Giustizia Andrea Orlando. Se si riprenderanno «la ditta», quelli della sinistra non avranno ovviamente più alcun interesse ad andarsene; se invece non riusciranno nel loro intento è possibile che, temendo la ritorsione renziana, davvero facciano fagotto.

Dopo il referendum del 4 dicembre Bersani e gli altri hanno a più riprese chiesto un congresso (da farsi prima delle elezioni) per «rendere contendibile» la leadership. Prendendoli in parola, ieri Matteo Renzi ha sciolto la riserva e ha deciso di convocare le assise del partito. Non ha parlato esplicitamente di sue dimissioni dalla carica di segretario ma ha ammesso che «un ciclo si è chiuso», e che dunque tanto vale andare a verificare la situazione interna. Benché quella del congresso fosse una propria richiesta, la minoranza ancora una volta ha detto di non essere d’accordo. Motivo: Renzi il congresso lo vuol fare subito, in un paio di mesi, diciamo in aprile, per non pregiudicare eventuali elezioni anticipate che potrebbero tenersi in giugno o settembre. Viceversa Bersani avrebbe voluto un tempo ben più lungo che accompagnasse il governo fino alla fine della legislatura, cioè al 2018.

Chiara la tattica dei due schieramenti: Renzi vuole vincere il congresso in fretta (è scontato che abbia la maggioranza della base) e sulla base di una nuova forte legittimazione fare delle liste elettorali per la Camera e il Senato che rispecchino l’equilibrio interno e dunque riducano il numero di deputati e senatori della sinistra. Viceversa, Bersani vuole allungare il brodo perché Renzi affronti il congresso logorato dalla guerriglia interna, magari spogliato da alcune alleanze come quella di Orlando, e quindi meno pronto ad affrontare un assalto concentrico.

Ma il segretario ex premier ha agito in contropiede e ha deciso lui come si dovrà andare avanti: e così ha messo nell’angolo l’opposizione riservandosi il diritto di staccare la spina al governo Gentiloni quando lo riterrà opportuno, ovvero subito dopo aver trovato un accordo con Forza Italia sulla nuova legge elettorale.

È vero che Renzi ha distinto il congresso dalla elezioni, è anche vero che ha coperto Gentiloni di elogi e dichiarazioni di sostegno, ma bastava ascoltare le parole da lui rivolte al ministro dell’Economia Pier Carlo Padoan sulla manovra correttiva richiesta da Bruxelles («non possiamo aumentare le tasse, nessun ritocco alle accise») per capire che si sente in piena campagna elettorale, oltre che congressuale. Se ad aprile davvero il governo dovesse stangare gli italiani aumentando la benzina, i bolli e chissà cosa altro, Renzi ne pagherebbe il prezzo politico e naturalmente non ha alcuna intenzione di passare alla cassa.

Le divisioni interne al Pd e i rischi di scissione, benché siano una prova di democrazia interna ormai quasi unica nel panorama politico italiano, hanno come conseguenza quella di indebolire il governo: Gentiloni non ha a questo punto alcuna certezza sulla propria durata da qui alla fine della legislatura. Questa incertezza è destinata a pesare nella nostra reputazione internazionale, a Bruxelles come sui mercati. Una nuova fase di instabilità politica a Roma, in quest’anno di elezioni in Europa e con i mercati pronti a scatenarsi di nuovo, è visto come un altro fattore di pericolo, quasi una resa all’avanzata delle forze populiste.

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