Troppe ambiguità nella lotta all’Isis

Non c’è cosa più agghiacciante di ritrovarsi a pensare, come capita in queste ore, che è la «solita storia», che è tutto già visto. Persone pronte a morire pur di far morire gli altri si fanno esplodere in Turchia, come centinaia prima di loro in Iraq, negli Stati Uniti, in Russia, in Spagna, in Francia, in Gran Bretagna, in Afghanistan.

Ma anche in Costa d’Avorio si replica uno stragismo che ci ricorda le spiagge della Tunisia e di altri luoghi: sbarca un gommone e i miliziani sparano su uomini, donne e bambini. E anche questa volta, qua e là, contiamo i morti a decine. La Turchia dell’islamismo crescente, delle ambiguità sulla Siria, della lunga e crudele battaglia con l’indipendentismo curdo è molto diversa dalla Costa d’Avorio dove metà della popolazione è cristiana e che anche per questo viene colpita dai terroristi di Al Qaeda per il Maghreb Islamico che, dopo aver infiltrato la fascia instabile del Sahel, sono in perenne spostamento verso Sud. Ma in una cosa sono uguali questi morti: sono comunque nostri. Perché anche noi aspettiamo l’autobus a fine giornata, prendiamo un caffè sul bordo della strada, proviamo a goderci di tanto in tanto qualche giorno o qualche ora di riposo. Perché in questo mondo globalizzato i concetti di vicino e lontano hanno perso gran parte del significato, come la contabilità degli attentati dimostra.

E sono nostri, questi morti così lontani e così vicini, perché tutti ormai, qualunque sia la nostra patria, razza o fede, siamo coinvolti nella «terza guerra mondiale a pezzetti» di cui parlò Papa Francesco e che è sempre meno un’immagine efficace e sempre più una drammatica realtà.

Dovrebbe essere sufficiente, questa inevitabile constatazione, per fare del contrasto al terrorismo islamico e al jihadismo la buona battaglia di tutta la comunità internazionale. Compresi ovviamente i Paesi musulmani che soffrono più di tutti gli altri, in termini di vite umane e di risorse, di questa piaga epocale. Eppure questo ancora non succede, anzi: spesso dietro la scusa di combattere i miliziani si avviano operazioni di potere che aumentano le sofferenze degli innocenti e le speranze degli assassini. L’Iraq del 2003 e la Libia del 2011 ce lo ricordano ogni giorno.

Il grande problema è che continuiamo a colpire il mostro alla coda e non alla testa. Dare la caccia ai gruppi del terrore e cercare di bloccare sul nascere le loro azioni è doveroso. Ma ciò che farebbe davvero la differenza sarebbe tagliar loro i rifornimenti, bloccare il cordone ombelicale che consente loro di vivere. In altre parole: bisogna bloccare il flusso di denaro che sostiene la diffusione del verbo islamista e mantiene la latitanza e l’operatività dei jihadisti.

Gli attentati costano poco. È stato calcolato che le stragi dell’11 settembre 2001 negli Usa non richiesero più di 30 mila euro. Ma tutto il resto costa molto: armarsi, nascondersi, reclutare nuovi «martiri», indennizzare le loro famiglie, comprare complicità, mantenere i covi, viaggiare. Troppi Paesi, anche tra coloro che definiamo «moderati» o addirittura «amici», soprattutto dalle parti del Golfo Persico, sono troppo ambigui sotto questo aspetto, che è invece decisivo. Ed è lì, invece, che va fatto il salto di qualità decisivo. Non mancano all’Occidente gli strumenti per ottenere maggiore serietà dalle nazioni renitenti, soprattutto in un’epoca in cui il petrolio costa meno dell’acqua minerale. Ma bisogna avere la volontà di farlo e il desiderio di vincere la buona battaglia, nell’attesa che sia l’islam stesso a emarginare le sue frange degenerate. Senza quella volontà non andremo lontano.

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