Trump svela
la fragilità Usa

La visita a Mosca di Trump mostra un uomo esposto a possibili ricatti. Screditare all’estero l’autorità degli organi investigativi americani non è mai un buon servizio al proprio Paese. Anche se l’indagato numero uno è il presidente i panni sporchi si lavano in casa. A Washington glielo hanno fatto capire e «the Donald» ha dovuto ritrattare. La bizzarria di un uomo tuttavia non cambia i fondamentali. Un Paese come l’America orgoglioso della sua primazia nel mondo scopre che è in ritardo e che una parte della sua popolazione si è impoverita.

Il ceto medio, perno di ogni democrazia, è in estinzione, sostituito dai pochi che dall’apertura delle frontiere, dal libero mercato finanziario, dalla libera concorrenza internazionale e dalla mancata regolazione della stessa hanno tratto profitto.

Così avanzano con mutate spoglie i nuovi ceti medi della Cina, dell’India, del Sud Est asiatico. Grazie al basso costo di manodopera e dei servizi in questi Paesi si può produrre quello che in Occidente si è pensato essere diventato superfluo, dai semilavorati ai prodotti finiti. Con una grande eccezione: la Germania. Il livore con cui il presidente americano attacca Angela Merkel è solo pari all’indignazione di chi ha perso il posto di lavoro e ne imputa la colpa alla Cina e a Berlino. A dieci anni dalla grande crisi sono loro i due vincitori. Doverlo constatare è il tributo di sangue elettorale versato per l’elezione di Trump.

È venuto meno il modello costitutivo americano, quello che Jeremy Rifkin sintetizza con le parole di sua madre: in America puoi fare quello che vuoi e puoi essere chi vuoi purché tu lo voglia con tutta la tua forza. Per i disastrati della cintura dell’acciaio e della metalmeccanica dell’Ohio e per i loro figli il sogno americano è diventato un incubo.

Al punto da considerare nemici tutti coloro che non condividono il loro amaro destino. Il procuratore Mueller fa parte degli organi di Stato, quelli che hanno potere e quindi l’élite. Che indaghi contro il presidente è la prova provata che i difensori dell’ordine costituito vogliono mantenere lo status quo, quello che ha condannato i lavoratori alla disoccupazione. Una semplificazione che capovolge lo Stato di diritto.

In Cina sanno di queste convulsioni occidentali. I loro rappresentanti diffondono l’idea di un potere soft, non invadente, sottolineano i vantaggi di una società autoritaria. Reclamano per sé la stabilità, la velocità decisionale, la programmazione decennale di una classe dirigente che non deve rendere conto all’elettore ma solo al partito, guidato da un solo uomo.

Si muovono già come alternativa all’America, propugnano un nuovo potere che si articola in Eurasia, la nuova parola d’ordine, che dovrebbe controbilanciare l’Atlantico e quindi il legame tradizionale con l’America. I destinatari del messaggio sono i Paesi europei. Il vaso di coccio posto tra la sponda occidentale americana e il Celeste Impero in bandiera rossa. Nella risposta data dal primo ministro cinese all’introduzione dei dazi sui prodotti Made in China colpisce la precisa intenzione di non alterare le relazioni con l’America. Rivelatrici sono le parole: l’America è una grande potenza e nulla nel mondo si muove senza il suo intervento. Il messaggio è chiaro: se voi in Europa fate le bizze e non ci state ad accettare la nostra via della seta, l’alternativa è chiara, ci accordiamo con Trump e per voi è finita.

La sfida cinese è una sfida a noi stessi in Europa. Se non riusciamo a difendere i nostri prodotti e la nostra industria in modo coeso in un’Unione Europea integrata, ogni Paese andrà per la sua strada e saremo uno ad uno un boccone prelibato del drago cinese.

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