Un lungo viaggio
iniziato con Roncalli

Il viaggio è già nella storia. A Cuba si è compiuto il faticoso itinerario della Ostpolitik, che è concetto diplomatico e insieme religioso, politico e insieme pastorale, dei pionieri dell’unità tra cattolici e ortodossi, da Angelo Roncalli, l’ambasciatore del Papa in Bulgaria, poi in Turchia e in Grecia, prima di diventare il Papa del primo Concilio ecumenico, al cardinale Bea, al cardinale Koenig, tessuta dalla sapienza perfetta dei cardinali Agostino Casaroli e Achille Silvestrini. Il popolo l’aveva capita prima l’importanza di quell’azione rispetto ai propri leader religiosi. Quando Giovanni Paolo II andò in Romania, il primo grande Paese di tradizione ortodossa visitato da un Pontefice e abbracciò il Patriarca Teoctist, la folla gridò «Unitate, unitate».

A Cuba un traguardo è stato raggiunto e ora si aspettano le nuove tappe di un cammino che adesso giustifica un sogno, quello della piena unità, dell’Eucarestia comune, della fine vera dello scisma del 1054, perché è stato questo incontro a rompere l’incantesimo della divisione e ad aprire quella che probabilmente, almeno così tutti si augurano, diventerà una consuetudine nuova.

Forse un giorno potranno vedersi a Mosca o a Roma, potranno pregare insieme contemplando anche i simboli architettonici della fede, le cattedrali e le icone, e non un semplice, ancorché potente, crocefisso di legno appeso nella saletta spoglia di un aeroporto. «Finalmente», ha esclamato il Papa. E quell’avverbio da due giorni è inchiodato come un monito sul volto delle Chiese cristiane, ma anche su quello delle Cancellerie di tutto il mondo, perché due uomini che hanno nelle mani anche loro un pezzetto delle redini del mondo, due leader, hanno dimostrato che si può riuscire a ritrovarsi «hermanos», fratelli, a non essere concorrenti, a camminare insieme accanto e non contro, e questo concetto deve ispirate le azioni personali e comuni.

L’incontro di Cuba è stato una bella lezione a tutti quanti, sul piano internazionale e sul piano nazionale di ogni Stato e di ogni governo. Uomini che uniscono e che non più dividono, presupposto che sbaraglia rancori, diffidenze, timori, presupposto decisivo per la pace. È una lezione precisa alla comunità internazionale e alla sua diplomazia su come devono essere impostate le road map di qualsiasi tipo, ma soprattutto quelle cruciali per arrivare alla definizione di un mondo diverso, colmo di giustizia e di solidarietà.

Hanno avuto pazienza quei due uomini, hanno tessuto una tela con un lavoro accurato e lungimirante, senza nulla escludere dall’orizzonte, come dovrebbe fare chiunque ha a cuore la sorte dei popoli. E alla fine l’ordito di Francesco e Cirillo ha preso forma, senza cancellare o nascondere secoli di divisioni, senza spazzare via alcuna memoria, ma segnando un nuovo inizio. Chiesa che unisce, anzi Chiese che uniscono e che si spera portino dietro a sé tutti gli altri, anche quelli che oggi discutono sul fatto se ha vinto Bergoglio o ha vinto Kirill. E soprattutto su chi ha perso nell’abbraccio, perché ci sono anche questi tra Mosca, Kiev, il Medio Oriente, forse anche Roma.

C’è chi davanti agli ostacoli stratificati dai secoli non si mette a smontarli. È quieto vivere, tranquillità, esattamente il contrario della imprevedibilità evangelica, che scombussola coscienze e orizzonti e chiede sempre nuove tessiture. Come ha fatto il Papa appena arrivato in Messico che ai vescovi ha chiesto di avere lo sguardo della «ternura», uno sguardo capace di tessere, indispensabile per affrontare le sfide del narcotraffico e della corruzione. Altra strategia il Papa non ha, se non quella di andare. Insieme a Kirill, insieme al popolo del Messico che soffre.

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