Una madre, un figlio
e un amore fragile

Gli aggettivi con cui è stato definito il provvedimento a carico di Martina Levato dicono quanto sia complicato, molto di più di lunghi commenti: «Urgente e provvisorio». I giudici minorili hanno autorizzato la madre ad effettuare una visita giornaliera di «durata contenuta» al figlio, con esclusione, però, per lei, della possibilità di allattare direttamente il piccolo. La decisione dei giudici minorili ha in parte modificato quella del pubblico ministero minorile Annamaria Fiorillo che aveva, semplicemente, deciso di allontanare il neonato dalla madre.

Intanto, si deve registrare l’enorme discussione che si è accesa attorno al caso. Verrebbe da dire, con una osservazione a pelle, che tra immigrazione, crisi libica, Medio Oriente e tutto il resto, il caso della detenuta e del suo bambino avrebbe potuto essere considerato, tutto sommato, secondario. E invece. Tra le tante, una ragione mi sembra evidente. Madre e bambino sono due figure che resistono al di là di tutte le crisi culturali presenti e passate. Di fronte a loro ci si commuove nonostante tutto, e si discute. Oggi diventa sempre più raro diventare madre ed è sempre più difficile essere figli, anche perché di figli se ne fanno di meno e la famiglia è in crisi. Ma nonostante tutto ci si appassiona e della madre e del bambino. Come una specie di riflesso condizionato dal quale non si può prescindere. Ne prendiamo nota.

Questa madre e questo bambino, poi, provocano un’ulteriore reazione di difesa. Per ragioni diverse sono figure fragili. Il bambino, evidentemente, perché piccolo e perché rischia, appena nato, di non avere una madre. Ma anche la madre, in fondo. Ha commesso un crimine per il quale è stata condannata. Ma adesso è in carcere e, in carcere, ha dato alla luce un figlio. Ha finito per assumere alcuni tratti di fragilità che hanno acceso quel ricorrente atteggiamento collettivo che viene definito «passione per le vittime». Quando l’opinione pubblica deve scegliere fra un oppressore forte e un oppresso debole, sceglie sempre l’oppresso debole. Si potrebbe dire, in altre parole, che la forza non affascina o, per lo meno, non affascina come invece affascina e commuove la fragilità e la debolezza.Ora Martina Levato ha sfigurato con l’acido il suo ex fidanzato: ha usato una forma repellente di violenza ed è stata giudicata dall’opinione pubblica e dalla giustizia; adesso che è in prigione la stessa opinione pubblica la assolve perché da forte che aggredisce, la donna è diventata debole che subisce, perché detenuta e perché madre.

La legge deve fare il suo corso. Ma forse la soluzione migliore è quella che sembrano aver imboccato i giudici. Di fatto la vita di Martina Levato è radicalmente cambiata: è arrivato il figlio. «L’amore fa miracoli», è stato detto anche in questa circostanza, soprattutto l’amore di una giovane madre per il suo primo figlio. Anche se la frase ha una buona misura di retorica, va riconosciuta come vera. Martina Levato dovrà passare diversi anni della sua vita in carcere o comunque in strutture «protette» per la pena che deve scontare, ma il figlio potrebbe contribuire ad accelerare un processo di «redenzione». La parolona è grossa, ma non fuori posto. Se così avvenisse, si avrebbe un altro dei tanti casi singolari, nei quali un debole salva un forte, un piccolo redime un grande.

È già successo, infatti ed è, tra l’altro, una costante della tradizione cristiana. Il vecchio Simeone tiene in braccio il bambino, ma è il bambino che è «salvezza» per il vecchio («I miei occhi hanno visto la tua salvezza»). Il Crocifisso ha le mani inchiodate ma è lui che salva il centurione che l’ha messo in croce («Veramente quest’uomo era figlio di Dio»). Non si può sapere se avverrà, ma se avverrà, il nuovo miracolo porta con sé l’eco di parole molto antiche.

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