Una nascita non è
un danno da risarcire

C’è qualcosa di surreale nella sentenza emessa ieri dalla Corte di Cassazione nella causa di una coppia di Alessandria che non voleva avere un figlio. In sostanza, a parere dei giudici il mancato aborto per errore medico che ha portato alla nascita di una bambina, è un «danno» che va riparato con un risarcimento al padre. La madre infatti era già stata indennizzata con 125 mila euro dall’assicurazione dell’ospedale «reo» del mancato aborto, l’Azienda ospedaliera SS. Antonio e Biagio e Cesare d’Arrigo.

Nei precedenti gradi di giudizio, prima il Tribunale di Alessandria nel 2012 e poi la Corte d’Appello di Torino nel 2013, avevano respinto la richiesta del padre. Invece la Cassazione ha ritenuto di dover rovesciare la sentenza con la motivazione che anche «il padre deve considerarsi tra i soggetti “protetti” e, quindi, tra coloro rispetto ai quali la prestazione mancata o inesatta è qualificabile come inadempimento, con il correlato diritto al risarcimento dei conseguenti danni». I genitori hanno infatti motivato la loro contestazione con il fatto di sentirsi «vecchiotti», di avere già un figlio grandicello e di essersi trovati costretti a riorganizzare tutta la loro vita per fare crescere la figlia non voluta: la madre si era licenziata, il padre aveva dovuto cambiare lavoro.

In linea di principio, fa un po’ specie che nell’Italia del 2018, per due genitori e per i giudici della più alta Corte la vita venga considerata alla stregua di un danno. Anzi, a voler essere più precisi, bisogna togliere la genericità dell’articolo «la»: perché qui ci troviamo non di fronte a un’accezione astratta ma a un riferimento molto concreto. «Una» vita, con tanto di nome, di volto, di piccola storia già alle spalle. Infatti sulla scena di questa controversia si deve registrare un soggetto assente: che è proprio «quella» vita non voluta. Una bambina, che, a guardare le date dei gradi di giudizio, oggi potrebbe avere anche otto anni, e che quindi è ben in grado di capire quel che sta accadendo sulla sua testa. Si può solo sperare che i genitori le abbiano spiegato la scelta come una scelta anche nel suo interesse, per avere più mezzi per farla crescere meglio e per assicurarle un futuro. Si può sperare che questa sera in quella casa si festeggi perché furbizia ha vinto, perché ora si potrà magari fare una bella vacanza insieme. Ci si può augurare che anche la figlia se la rida della bravata di quei due suoi bizzarri genitori. Ma è una speranza che poi s’infrange implacabilmente contro la durezza di quelle parole del padre, messe agli atti e quindi destinate a restare: «La gestazione era andata avanti contrariamente alla palesata volontà sua e della moglie». Una figlia non voluta, alla quale si ribadisce pubblicamente, davanti a un’autorità dello Stato, questo suo essere una creatura «indesiderata». Sono parole che dovrebbero essere «proibite» a ogni genitore, che dovrebbero sparire dal vocabolario di chi è padre e di chi è madre. E non c’è risarcimento che alla fine le giustifichi.

L’altro aspetto grave e, francamente, inaccettabile di questa vicenda è il fiscalismo che sta dietro la sentenza emessa dai giudici. Nel ragionamento delle toghe la presenza della bambina è ridotta a un insieme di costi e di somma di scomodità che ha comportato. È un ingombro così oggettivo da poter esser quantificabile anche in danni monetari. Perciò sconcerta pensare che una Corte autorevole come la Cassazione finisca con il legittimare moralmente un comportamento simile da parte dei due genitori. Dov’è finito il diritto della bambina a crescere sapendo di non essere stata un infortunio? Si può pensare a una legalità priva di senso morale?

C’è infine un elementare principio di realtà in base al quale, davanti a una bambina che alla fine è nata, la vita comanda. E la vita non è mai un danno. Un messaggio che è importante far passare in ogni occasione in un Paese che, visto il triste trend demografico, sembra avere paura della vita che viene.

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