Il muro di catene

Il ritorno dei muri. Quello ungherese di metallo e filo spinato è quasi pronto: lungo 175 km e alto 4 metri, correrà lungo tutta la frontiera sud con la stupenda Vojvodina, regione della Serbia, una delle più verdi d’Europa tra il Danubio e il Tibisco.

Ce la ricordiamo bene perché durante la guerra dei Balcani era l’unica porta d’ingresso e d’uscita dal Paese. In auto da Belgrado a Budapest era un viaggio con due problemi: la benzina razionata e i posti di blocco dei carristi serbi che non sempre avevano voglia di leggere i lasciapassare e sparavano in aria raffiche di mitra per indurre a rapidi e per nulla negoziabili dietrofront.

Allora, una volta superata la frontiera a Horgos, ti sentivi libero. Il mondo verso Budapest tornava a colori. Gli ungheresi sanno cosa significa l’oppressione. Hanno subìto duramente quella comunista e furono i primi (a Sopron, fine di giugno 1989) a organizzare con gli austriaci l’apertura del confine per qualche ora. Dalla cortina di ferro passò un alito di vento. Un gesto simbolico che diventò il «Picnic paneuropeo» in agosto e portò alla graduale riduzione delle postazioni di sorveglianza ai confini, primo passo verso il crollo del muro di Berlino. Allora gli ungheresi, i muri li abbattevano. Nella seconda guerra mondiale, durante la ritirata di Russia, al fianco degli alpini italiani che per undici volte sfondarono il fronte - pur in condizioni estreme- sconfiggendo i sovietici fino a Nikolajewka, c’erano reparti ungheresi. Ancora oggi a Budapest, davanti alla Casa del Terrore (dove lavoravano di fino i torturatori), c’è un monumento fatto di catene, monito per chi vuole frustrare le libertà in Europa. Monito inutile.

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