Rosso antico

Chi passasse dalle parti della facoltà di Scienze politiche dell’università di Bologna in questi giorni avrebbe la certezza che stanno girando un film sugli anni della contestazione generale, delle okkupazioni universitarie, del voto politico e della fantasia al potere tenuta a bada dai katanga.

Infatti dalle finestre penzolano striscioni del tipo «Le vostre guerre, i nostri morti» e «Fuori i baroni della guerra»; il collettivo studentesco staziona nel chiostro in sit-in permanente e cercansi Inti Illimani o qualcosa di simile per la colonna sonora. Ma non si tratta di un set, è tutto vero.

Il bersaglio di questo trapassato remoto è un docente. Uno solo, con un nome e un cognome molto noti: Angelo Panebianco, reo agli occhi del Collettivo universitario autonomo di avere scritto giorni fa sul Corriere della Sera un editoriale dal titolo: «Noi in Libia saremo mai pronti?», nel quale non fa altro che esprimere civilmente il suo parere sul balbettante approccio del nostro Paese a un dramma in corso a un braccio di mare da noi. Scambiando un politologo serio e preparato per un guerrafondaio, questi pseudo-pacifisti violenti da qualche giorno gli impediscono di tenere lezione, irrompono nell’aula per zittirlo, scrivono «il cuore nero di Panebianco» e rinvigoriscono cupi fantasmi di un passato che non macina più.

Dopo l’ennesimo blitz, il rettore Ubertini ha espresso «ferma condanna» e la procura di Bologna è intenzionata a muoversi per interruzione di pubblico servizio. In prudente silenzio i colleghi di Panebianco, forse perché ritengono che si tratti solo di folclore. Peccato, una solidarietà concreta con nomi e cognomi avrebbe un valore ben diverso.

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