Fecondazione eterologa
rimborsi e conti in rosso

La polpetta avvelenata della fecondazione eterologa inizia a provocare i suoi effetti. E non stiamo parlando di implicazioni etiche, bensì di più prosaiche ma non meno importanti problematiche di bilancio.

Riassumiamo le basi per capire il punto di arrivo. La fecondazione eterologa si avvale dell’uso di gameti (ovuli e/o spermatozoi) esterni alla coppia che, però, non risultano di facile reperimento. Da un lato, uomini e donne sanno perfettamente che dare le proprie cellule riproduttive vuol dire donare una parte di sé destinata a nascere in un nuovo individuo di cui non si saprà più nulla. Dall’altro, la dazione di gameti, almeno quelli femminili, non è una passeggiata: effettuare prelievi a fresco da donatrici è una procedura invasiva che prevede lunghe stimolazioni ormonali, pick-up dolorosi, sincronizzazione dei tempi con la ricevente e, infine, periodi di riposo. Rari sono coloro che, volontariamente e gratuitamente come prevede la legge, si mettono in ferie e si sottopongono a tale iter.

Ci sarebbe «l’egg-sharing», ovvero il coinvolgimento di donne interessate dalla stessa problematica di infertilità che, mentre si sottopongono al prelievo di propri ovociti per una fecondazione omologa, mettono a disposizione di altre donne quelli sovrannumerari e non utilizzati. Ma anche qui l’adesione è scarsa. Vuoi per quanto già elencato sopra, vuoi per i paletti molto stringenti riguardo l’età delle donatrici che deve essere inferiore ai 35 anni. Il problema è che non solo l’età media di chi si sottopone alla Pma è aumentata, ma nell’impossibilità di sapere in anticipo quali ovociti saranno migliori di altri, le poche pazienti con le caratteristiche giuste si fermano, chiedendosi se stanno cedendo a un’altra le loro chances di riuscita.

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