Il Papa e il terrorismo
Critiche e contraddizioni

Da Bruno Vespa a Giuliano Ferrara vengono opposte aspre e talora irridenti contestazioni all’interpretazione di Papa Francesco delle azioni sanguinose del terrorismo fondamentalista come una guerra, sì, a tappe e a pezzi, ma non di religione.

Ferrara attribuisce al globalismo terzomondista del pontefice «venuto dalla fine del mondo» l’incapacità di comprendere l’Occidente europeo. Bruno Vespa spiega con la sapienza tattica (gesuitica?) la mancata classificazione come «guerra di religione”» del processo di annientamento in corso della presenza cristiana in Medio oriente, in Nigeria e altrove, compreso il tragico episodio di Rouen. Francesco non potrebbe chiamare le cose con il loro nome, perché teme una rappresaglia ancora più grande. Un po’ come fu il caso di Pio XII di fronte al nazismo.

A queste critiche si associa anche la folkloristica corrente «sedevacantista», che serpeggia da anni ai margini della cattolicità. Essa sostiene esservi «sede vacante» a Roma dopo la morte di papa Pio XII nel 1958. Questo sarebbe l’oggetto del cosiddetto «Terzo segreto di Fatima», che tuttavia i suoi successori, avrebbero colpevolmente occultato. Così Francesco sarebbe in realtà un anti-papa e un apostata, che rifiuterebbe di denunciare l’attacco finale al Cristianesimo. Qual è dunque l’interpretazione di fatti quali la distruzione sistematica delle comunità cristiane del Medio Oriente, le stragi sunnite degli Sciiti, i massacri sciiti dei Sunniti, la distruzione degli Yazidi, la persecuzioni indù dei mussulmani? Sono tornate le guerre di religione? Una risposta simile resta astratta o puramente ideologica, se non si analizzano le culture, gli interessi, i fini dei soggetti che dichiarano/praticano la guerra.

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