Quei mussulmani
dalla parte dei cristiani

Si chiamava Jamall Rahman. Il suo nome è sconosciuto ai più ma il suo gesto è di quelli che lasciano il segno e attraversano la spessa corazza dei pregiudizi.

Jamall era un migrante etiope. Mussulmano. Il suo volto compare nel video di Al Furqan, la macchina della propaganda del Califfato, insieme ad altri ventisette uomini. Etiopi ed eritrei. Cristiani. Tutti e ventotto giustiziati in Libia dallo Stato Islamico. La notizia è stata confermata da una fonte che non lascia dubbi: un miliziano degli al Shabab, il gruppo dei fondamentalisti islamici della Somalia. Che – come riferisce un quotidiano online del Somaliland – ha spiegato la “stranezza” sostenendo che «si era convertito al cristianesimo durante il viaggio».

C’è però anche un’altra versione, molto più verosimile, raccolta sempre in ambienti jihadisti: il musulmano Jamaal «follemente» si sarebbe offerto come volontario ai jihadisti come ostaggio, per solidarietà con l’amico cristiano con cui stava compiendo il viaggio. Forse pensava che la presenza di un musulmano nel gruppo avrebbe per lo meno salvato la vita alle altre persone. Ma così non è stato: è stato ucciso anche lui, trattato come un apostata.

La sua vicenda mi ha ricordato quella di Mahmoud Al’Asali, docente di pedagogia dell’Università di Mosul, città irachena finita nelle mani delle milizie islamiste l’estate scorsa. Mosul, una città di due milioni di abitanti che si trova a nord est di quello che un tempo era il «paese delle meraviglie», è sorta sui luoghi dell’antica Ninive, la capitale assira di biblica memoria. Dopo aver distrutto la moschea intitolata al profeta Giona, considerata uno dei più importanti monumenti storici e religiosi e luogo di pellegrinaggio di musulmani sia sunniti sia sciiti, i miliziani hanno intimato alle minoranze della città la conversione all’Islam o la fuga.

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