E il Pirellone si trovò
accerchiato dai sindaci

Ed un bel giorno, dall’alto del suo ufficio al 39° piano di Palazzo Lombardia, Roberto Maroni cominciò a vedere rosso. Un vago senso d’accerchiamento, come dire: la sconfitta a Varese, da sempre roccaforte leghista, è di quelle difficili da mandare giù, soprattutto perché in pieno feudo maroniano. Ma la cosa singolare è un’altra: dai ballottaggi di domenica, il centrosinistra controlla tutti i capoluoghi di provincia della Lombardia. Ma proprio tutti: Varese era l’ultimo baluardo del centrodestra in generale e del Carroccio in particolare.

Crollato pure quello. «L’esito dei ballottaggi non cambia nulla per quanto riguarda Regione Lombardia: la maggioranza che c’è continuerà a governare fino alla scadenza naturale del mandato» si affretta a precisare il governatore l’indomani del voto, spiegando anche di puntare all’accorpamento del referendum sull’autonomia lombarda con quello sulla riforma costituzionale renziana. Magari il 2 ottobre, possibilmente coinvolgendo anche il Veneto di Zaia. Ma è indubbio che, passo dopo passo, urna dopo urna, la geopolitica dei capoluoghi della Lombardia sia cambiata: Brescia, Bergamo, Pavia, Como, Cremona, prima ancora Milano con Pisapia, poi Monza, e ora Varese. Un pezzettino alla volta, turno dopo turno, il centrosinistra ha sfilato a Lega e Forza Italia (o fu Pdl) il governo di tutte le città lombarde. E non è solo un traguardo simbolico, ma molto fattuale. Pur tra i mille problemi che attanagliano il Pd, i sindaci hanno saputo fare rete tra loro, correndo in sostegno durante le rispettive sfide elettorali: tra gli ultimi esempi c’è proprio quello di Beppe Sala a Milano, vittorioso con una strategia comunicativa molto simile a quella di Giorgio Gori nel 2014. Sullo sfondo, l’impegno in prima linea di Maurizio Martina, passato in poco tempo dai banchi dell’opposizione al Pirellone al posto da ministro, ma mai assente sul territorio.

Da qui a dire che il centrosinistra sia egemone in Lombardia ce ne passa, comunque, anche perché le sue vicende sono inevitabilmente legate a doppio filo a quelle di un Pd atteso all’ennesima «redde rationem» e dove lo sport preferito è (storicamente) farsi male da soli. Ma un politico navigato come Maroni sa che il quadro territoriale è progressivamente mutato: e soprattutto ha ben presente che nel 2018 si vota per il rinnovo della Regione, e questa volta il centrosinistra punta a dare lo sfratto ad un centrodestra padrone di casa ormai dal lontano 1995. Il secolo scorso, per capirci.

E così la Lega scopre che, un pezzettino alla volta, è sempre meno lombarda: almeno nei capoluoghi, che sono però piccoli rispetto alle relative province, ed è questo che può continuare a fare la differenza. Perché scendendo di popolazione, la forza e il radicamento padano sono ancora indubbi. Anche solo perché sono tra i pochi a preferire ancora una presenza fisica - leggi sezioni aperte - alla virtualità grillina o alla leggerezza che ha caratterizzato Forza Italia nella sua storia.

Per Salvini una grana in più, perché la sconfitta nel feudo maroniano di Varese rischia di riaprire qualche ferita mai del tutto chiusa nel Carroccio. Per un centrosinistra che si lecca le ferite in tutto il Paese, la consolazione non da poco che tra 2 anni la battaglia in Lombardia è tutta da giocare, e mai come questa volta la differenza la farà il candidato. Nell’attesa, ad ottobre c’è un referendum costituzionale che può rappresentare un primo banco di prova: quanto meno per capire se nel Pd prevarrà la voglia di salvare Renzi o quella di continuare nello sport preferito, l’autolesionismo politico,

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