Maurizia: «Ciao Bergamo. Ma è un arrivederci»

La Cacciatori: «Otto anni fa non mi sarei aspettata un’accoglienza simile. Ora non potevo più restare»

Tutte le storie hanno un principio e una fine, anche le più belle.

E quella di Maurizia Cacciatori a Bergamo è stata senza dubbio una storia bellissima. La principessa del volley, arrivata qui nell’estate del 1995, ha preso per mano un fenomeno in crescita prorompente facendogli raggiungere, accanto a traguardi di grandissimo prestigio, vertici inimmaginabili di popolarità. Il suo volto, di straordinaria bellezza, è diventato il volto della pallavolo: uno sport giovane, pulito, ricco di fascino, di grande presa sul pubblico. E lei ne è diventata un simbolo a livello planetario: come donna e come giocatrice. Una ragazza semplice, che non si è mai lasciata abbagliare dai riflettori, né prendere la mano dalla enorme popolarità di cui è stata fatta oggetto.

Ancor oggi, sui campi di tutta Italia e di tutto il mondo, è la giocatrice più ammirata, più acclamata, più coccolata. Dovunque vada, alla fine di ogni partita si consuma un consolidato rituale: Mau viene assalita da decine di tifosi, piccoli e grandi, che la invitano a posare con lei per una foto, le chiedono un autografo, le stringono la mano.

E’ sempre l’ultima a infilare il tunnel dello spogliatoio. Un suo ammiratore di Catania, all’indomani di ogni vittoria significativa, le fa recapitare a domicilio una grande torta che poi lei divide con le compagne al termine dell’allenamento. A Bergamo, per otto anni, il vecchio palasport è ribollito di tifo per la Foppapedretti, ma soprattutto per lei. E gli slanci di fantasia hanno toccato traguardi ai confini del delirio. «Ci vogliono cento Shiffer per fare una Cacciatori», ha vergato su un enorme striscione uno dei suoi tanti spasimanti: sublime iperbole di un amore senza limiti.

Ma, come s’è detto, ogni viaggio ha un principio e una fine, e anche quello di Maurizia a Bergamo, che sembrava avere caratteristiche eterne, è arrivato all’ultimo passo. Nella prossima stagione «Il Capitano», come era affettuosamente chiamata dagli irriducibili, affezionatissimi - e, immaginiamo, inconsolabili - curvaioli della «Nobiltà Rossoblù», non vestirà più la maglia della Foppapedretti. Troppo tormentata la stagione da poco conclusa per pensare di andare avanti. Anche se nel frattempo è andato via Mario Di Pietro, l’allenatore che non ha creduto in lei. L’unico, insopprimibile desiderio, non appena è stato dato il «rompete le righe», è stato quello di cambiare aria: via da Bergamo, il più presto e il più lontano possibile. Le vicende che hanno portato a questa dolorosa separazione sono note e non vale la pena di tornarci sopra. Di certo, un anno fa di questi tempi, a scudetto fresco di conquista, nessuno avrebbe immaginato di vivere, a soli dodici mesi di distanza, una simile situazione.

Ma tant’è. Maurizia se ne va, probabilmente in Spagna, nell’incantevole Tenerife, per ricominciare daccapo un’avventura di vita e di sport della quale debbono essere scritti ancora molti capitoli. Se ne va portandosi dentro rimpianti, ma non rancori: non è tipo da serbarne.

Avrebbe, volendo, qualche sassolino da togliersi dalla scarpa, ma non lo fa.

«Mi dispiace soltanto - sussurra - di andare via alla fine di un anno in cui non s’è vinto niente. Ma quest’ultima stagione non cancella il ricordo delle grandi soddisfazioni che ho ottenuto con la Foppapedretti. Questa società e questa città sono destinate a rimanere una parte fondamentale, incancellabile della mia vita. Lascio tantissimi amici. Quello che ho avuto qui non lo potrò mai dimenticare».

Si riferisce ai successi?

«Non soltanto. Bergamo e i bergamaschi mi hanno circondato di un calore umano straordinario, tanto da farmi sentire una di voi. Non potrò mai dimenticare le attestazioni d’affetto tributatemi ogni domenica al palasport. Ma nemmeno quelle della gente di strada, che magari non è mai venuta a vedere una partita. Al bar sotto casa, dove scendevo a fare colazione, c’erano i pensionati che mi attaccavano sempre bottone. Mi invitavano a bere con loro: se avessi accettato, avrei preso la ciucca tutti i giorni. Dopo l’ultima partita di campionato, sul marciapiede davanti alla mia abitazione, ho trovato una scritta in gesso che mi supplicava di non andare via. Sono cose che lasciano il segno».

Però se ne va...

«Cercate di capirmi. L’ultimo anno non è stato facile per me. Dentro e fuori squadra, chiacchiere a ruota libera, incomprensioni, equivoci. E ho avvertito chiaramente che la fiducia nei miei confronti stava venendo meno. Prova ne sia che i contatti con la palleggiatrice che mi sostituirà nel prossimo campionato (la Zhukova, ndr) erano stati allacciati già da alcuni mesi. Nessuno parla, ma i tam-tam non sbagliano quasi mai. Io, se non sento fiducia attorno a me, non vivo serena».

Adesso è serena?

«Sì, la fine del campionato è stata una liberazione. Adesso penso a svagarmi e, intanto, esamino le proposte che mi arrivano per andare a giocare da qualche parte. Grazie a Dio, non mi mancano le richieste».

Italia o estero?

«Oggi come oggi mi sentirei di escludere una mia permanenza in Italia. Per due buone ragioni. La prima è che mi attira molto la prospettiva di un’esperienza all’estero. La seconda è che, in questo momento, non riesco a vedermi nei panni di chi affronta la Foppapedretti come avversaria, di chi viene a giocare a Bergamo con un’altra maglia. E poi c’è una terza ragione: in questo momento ho voglia di correre via, più lontano vado meglio è».

In Spagna?

«E’ possibile. Qualcuno si è già fatto avanti, contattando il mio procuratore. Non è ancora una vera e propria trattativa, diciamo che è un forte interessamento».

Che cosa ricorda del suo arrivo a Bergamo, otto anni fa?

«La calorosa accoglienza della gente, che andava un po’ in controtendenza rispetto a quanto mi avevano sempre detto dei bergamaschi: un po’ chiusi. E poi una società all’avanguardia per organizzazione ed efficienza. A rafforzare il legame è arrivato subito lo scudetto e per me, che con il Perugia ne avevo persi due in finale, contro Ravenna e Matera, è stata la realizzazione di un sogno. Quel primo scudetto è il ricordo più bello che porto via con me».

E il più brutto?

«Il più difficile, da un punto di vista strettamente privato, è stato la vicenda del diuretico di un anno fa, anche se poi è stata riconosciuta la mia buona fede. Ma il più brutto sul piano sportivo è stato questa stagione in generale e, in particolare, la sconfitta in Champions League: lì ho capito che la squadra era piena di problemi e che non sarebbe andata lontano nemmeno in campionato. Lì ho avuto la certezza che l’intera annata era incamminata verso il fallimento».

C’è qualcuno che vuole ringraziare in modo particolare?

«Sono tanti e non vorrei fare torto a qualcuno, dimenticandomene nell’elencarli».

Si sforzi, faccia un nome...

«Osvaldo Grumelli: ottimo dirigente e persona straordinariamente sensibile sul piano umano. Mi è stato vicino nei momenti difficili, aiutandomi a superarli. Per me è stato un secondo papà, a Bergamo. E anche per molte altre ragazze che sono state alla Foppa in questi anni».

E’ un addio o un arrivederci?

«Per una città come Bergamo la parola addio non esiste».

(14/05/2003)

Ildo Seranroni

© RIPRODUZIONE RISERVATA