Un minuto con Dante
L'incontro con l'abate di San Zeno

La schiera degli accidiosi si muove in fretta, ad indicare - attraverso il contrappasso - la necessità del fervore spirituale e dello zelo nell'agire. E Dante ora incontra l'abate del monastero benedettino di San Zeno.

L'ABATE DI SAN ZENO

18.115 « Noi siam di voglia a muoverci sì pieni,
18.116 che restar non potem; però perdona,
18.117 se villania nostra giustizia tieni.

18.118 Io fui abate in San Zeno a Verona

18.119 sotto lo 'mperio del buon Barbarossa,
18.120 di cui dolente ancor Milan ragiona.

18.121 E tale ha già l'un piè dentro la fossa,

18.122 che tosto piangerà quel monastero,
18.123 e tristo fia d'avere avuta possa;

18.124 perché suo figlio, mal del corpo intero,

18.125 e de la mente peggio, e che mal nacque,
18.126 ha posto in loco di suo pastor vero».



La schiera degli accidiosi si muove in fretta, ad indicare - attraverso il contrappasso - la necessità del fervore spirituale e dello zelo nell'agire. Due anime accidiose aprono la fila gridando a titolo di esempio la sollecitudine di Maria nel raggiungere la cugina Elisabetta e quella di Giulio Cesare nell'inseguire in Spagna i suoi avversari.
Un'altra anima, a nome degli accidiosi, chiede inizialmente a Dante di perdonare la loro fretta: non si tratta di villania ma della giusta punizione che hanno meritato.
Poi si presenta come abate del monastero benedettino di San Zeno, a Verona. Di costui non si sa molto (forse si chiamava Gherardo II) ma solamente che ricoprì il suo incarico al tempo dell'imperatore Federico Barbarossa (la citata distruzione di Milano è del 1162).
Gherardo se la prende poi con un tale che ha già un piede dentro la fossa, probabilmente il potente Alberto della Scala (che morì il 10 settembre del 1301), per aver imposto come abate di San Zeno suo figlio Giuseppe, del tutto immeritevole ed incapace di svolgere un simile incarico (mal del corpo intero: deforme, zoppo; e de la mente peggio: mezzo pazzo; e che mal nacque: nato da unione illegittima).
Si tratta di un clamoroso - e vergognoso - caso di nepotismo, frequente allora e purtroppo non del tutto scomparso.

Enzo Noris

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