Mirabella scuote la televisione:
«È ormai la fabbrica del vuoto»

È stato Michele Mirabella il protagonista dell'ultimo incontro al Teatro Civico di Dalmine di «Festivalettura: autori e libri nella media pianura bergamasca». Titolo Cantami, o mouse, come l'ultimo libro del noto conduttore.

È stato Michele Mirabella il protagonista dell'ultimo incontro, al Teatro Civico di Dalmine, di «Festivalettura: autori e libri nella media pianura bergamasca». Titolo Cantami, o mouse, come l'ultimo libro del noto conduttore (Mondadori). Il ciclo di incontri, organizzato dal Sistema Bibliotecario dell'area di Dalmine, è stato dedicato, in questa sua seconda edizione, a informazione e giornalismo.

Dottor Mirabella, lei ha alle spalle molte e varie esperienze professionali: cinema, tv, fiction, radio, teatro, giornalismo, conduzione… In quale ha potuto sentirsi più autentico. O, più banalmente, quale le ha dato più soddisfazione?
«Soddisfazioni materiali, evidentemente radio e tv. Ove pure non è mancato l'aspetto artistico, soprattutto in radio. Però è il teatro l'ambito dove mi trovo più a mio agio. Meglio: dove credo di essere più felice».

Stato di salute della tv italiana?
«Rigogliosa. Prolifera. Talmente che rischiamo la metastasi. Rigogliosa intendo dal punto di vista tecnologico, organizzativo, produttivo. Dal punto di vista della qualità ho una convinzione forse ormai considerata un po' patetica: la tv ha un immane compito educativo, che le deriva dalla sua potenza. Una forza immane che, se non ha una vocazione coraggiosamente etica, diventa, da fioritura lussureggiante, metastasi cancerosa. La televisione non può stare se non sotto il controllo politico delle democrazie. Altrimenti controllerà le democrazie e le farà diventare dispotismi. Ne abbiamo avuto prova per 17 anni. L'Italia pare, da questo punto di vista, la dimostrazione applicata di una tesi di Popper».

Quando parla di vocazione etica pensa a certa tv del passato?
«La tv nasce bene in Italia, come la Bbc in Inghilterra. Nasce dallo spirito dei padri fondatori della Costituente. Le intenzioni erano ottime. Poi se le sono scordate».

È la tv commerciale che ha un po' cambiato gli scenari?
«È stata devastante, altro che cambiato un po' gli scenari! Per un dieci per cento di rinnovamento buono che ha portato nei linguaggi, nello sveltire i palinsesti, ha significato un 90% di disvalori. Perché non è stata tenuta sotto controllo dalla democrazia».

Tv e medicina: un connubio felice?
«Esemplare. Elisir non è una trasmissione. È un metodo. Una linea editoriale. La divulgazione fraterna, amichevole, fatta per gli altri, nell'interesse della collettività. Sotto l'egida di un principio ineliminabile: la comunità partecipa della vita degli individui. Senza questo avremo la tv pessima che abbiamo lamentato in questi ultimi tempi. La strage di coscienze provocata dalla tv nelle case chiuse. Il non saper far nulla e per questo essere premiati; il nullificio, la fabbrica del vuoto, come diceva Benedetto Croce».

In un piccolo schermo che spesso ostenta orgogliosamente l'ignoranza, si sente a suo agio con il soprannome di «professore della tv»?
«L'ha inventato il mio amico Toni Garrani. Insegno all'università da 15 anni, un po' me lo sono meritato. In fondo i professori non hanno mai fatto veri danni. Qualche volta i dottori».

Il successo delle fiction?
«Le nipotine degeneri, ma qualche volta scapricciate, della grande tradizione narrativa della tv di servizio pubblico».

Ma queste colate di buonismo spesso goffamente irrealistico, questo ottimismo consolatorio, non finiscono con produrre pura evasione, favole, oppio dei popoli?
«Non è sempre così. Neanche i formaggini sono buoni come dice la pubblicità. La comunicazione ha regole che sono conosciute anche da quelli che la ricevono. Il pubblico non è così ingenuo, non è babbeo. Ha imparato a distinguere, a fare la tara. C'è un patto implicito, di ordine semiotico-comunicativo».

I suoi rapporti con Bergamo?
«Mio fratello, con la sua famiglia, vive a Bergamo. Ha diretto per anni un'agenzia di assicurazioni. Siccome la città gli piace, ci è rimasto anche dopo la pensione. Mio nipote lavora a Dalmine».

Lei ci viene spesso?
«Non tutti i mesi, ma ci sono capitato parecchie volte. Una città di grande bellezza, di una vitalità molto interessante, che credo garantisca un'alta qualità della vita. È la provincia del mio papa prediletto, Giovanni XXIII».

Questo suo lato di credente non è molto noto.
«Non è cosa pubblica, attiene all'ambito della coscienza privata. Anche se ritengo doveroso per i credenti applicarsi a quel minimo di apostolato che significa testimoniare il Vangelo. Senza presunzione di ergermi sul pulpito, preferisco tentare la pratica quotidiana del credente. Non esibisco come gagliardetti questi lati della mia vita. Ma sono cose importanti».

Vincenzo Guercio

 

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