L’introduzione di Rula Jebreal

Il luogo dove ho vissuto la mia infanzia e la mia giovinezza, la splendida e martoriata Gerusalemme, ha il potere di trasmettere a tutti, indipendentemente dall’età o dal censo, riflessioni profonde sulla vita e sulla morte, sulla gioia e sul dolore, sulla grandezza e sulla pochezza dell’uomo. Nella sua storia passata c’è il mistero che ha portato i testimoni delle grandi fedi monoteiste a considerare sacra questa terra, che ha prodotto guerre ed infiniti combattimenti per rivendicarne il possesso; nella sua storia recente c’è la follia di un conflitto di popoli e di religioni che continua a spargere sangue intorno ai luoghi di culto più amati da tutti i credenti, venerati ad ogni angolo della terra, che ispirano ad ogni essere umano sentimenti di pace e tolleranza.

Se non fossi vissuta nel lacerante confronto con queste insanabili contraddizioni, se non avessi visto intorno a me interrompersi e consumarsi la vita nella ricerca negata del futuro, forse non avrei saputo far altro che stringermi a Don Gigi con tutto il mio affetto per cercare di lenire il suo dolore e per cercare di rafforzare la sua fede di fronte alla prova più dolorosa e più difficile da accettare. Tuttavia la commovente testimonianza della serenità con cui Santina ha affrontato la malattia e si prepara al ricongiungimento con il suo Dio, è una lezione troppo importante per non incastonarla, come una pietra preziosa, sul manto dorato che copre Gerusalemme e sotto il quale si nascondono le più variegate esperienze dell’uomo nella sua aspirazione terrena e trascendente.


Mi pare di vederla, la mia città, la città di tutto il genere umano; vista al tramonto dal Monte degli Ulivi è come un miraggio bianco disteso sull’altopiano, macchiata dal giallo chiaro, dal rosa, dall’indaco della notte che scende. A quest’ora della sera, la cupola della moschea Al Aqsa riflette una luce più morbida e intensa, e tutta la città sembra bagnata d’oro: i tetti bassi che incorniciano i vicoli, le possenti mura di pietra chiara interrotte e alleggerite dai merli, dalle guglie e dai bassorilievi delle porte. Mi sembra di sentire le voci della città che si prepara alla notte, di vedere i pellegrini entrare dalla porta di Damasco. Appartengono a nazionalità diverse, indossano abiti molto diversi che li caratterizzano in modo inequivocabile, ma da qui appaiono come un unico fiume di persone che percorrono la stessa strada, verso la stessa meta, come attratte da un centro di gravità spirituale a cui è impossibile resistere.

Percorrono insieme la ripida discesa che porta al suq dove si confondono i profumi dei fiori e delle spezie, verso un labirinto di vicoli stretti abbelliti sotto dalle meraviglie e dai colori dei negozi e delle merci esposte, e sopra dalle rose e dai gelsomini che fioriscono sui terrazzi. Sono soltanto poche decine di metri di pietra bianca con profondi gradoni, ma rappresentano il cammino comune di uomini spinti da una diversa fede e restano dunque uno dei più forti simboli della tolleranza e del dialogo. I pellegrini sono destinati a dividersi, i cristiani a destra verso la basilica del Santo Sepolcro, i musulmani a sinistra, pochi isolati dopo, per salire la Spianata delle Moschee, e gli ebrei giù verso il Muro del Pianto, ma senza saperlo si recano tutti a pregare lo stesso Dio. I simboli dividono, la preghiera unisce. È qui che sento vicino al mio spirito il grande insegnamento di Santina che il suo Dio lo porta con sé, strettamente legato al suo cuore in un rapporto così puro, oramai etereo, da non aver più bisogno di rivendicare, con umana debolezza, nessun riferimento di spazio e di tempo. Sembra che la saggezza di queste pietre millenarie che hanno visto gli assedi e le conquiste, che hanno visto prevalere a turno i difensori della fede delle tre religioni, e che hanno davvero misurato la povertà della condizione umana, trovi finalmente ragione nell’amore e nelle preghiere di una donna tanto forte e coraggiosa quanto modesta e devota. Una fragile madre che ci ricorda come Dio sia ovunque e segua con spirito di carità ogni istante della nostra vita.

Gerusalemme è la città delle rocce sacre, la roccia del Golgota che si frantumò nel momento in cui ebbe fine la vita terrena di Gesù, la roccia della moschea dalla quale Maometto ascese in cielo. Gli uomini nella loro cecità hanno spesso dimenticato il messaggio fortemente spirituale che scaturiva da quelle rocce e ne hanno preteso il possesso o il dominio; così nella vita hanno creduto che il successo, il denaro ed il potere potessero essere la roccia a cui rimanere legati. La storia di Gerusalemme, che oggi trova una dolce conferma nel sorriso di Santina, ci racconta che la vera forza dell’uomo è nel suo spirito, nella sua ricerca di una vita che continui oltre l’esperienza terrena. Coloro che vivono così, che siano baciati o meno dal dono della fede, hanno la fortuna di godere della gioia e della serenità che sono il prodotto del creato e che nessun uomo può comprare o generare rimanendo chiuso dentro di sé. Questi uomini e queste donne hanno la fortuna di poter contare sull’amore profondo e sincero dei propri figli ai quali mancherà terribilmente la mano da stringere o la testa da accarezzare, ma che non si sentiranno mai soli nel loro pellegrinaggio su questa terra. 
A Don Gigi voglio dire grazie – io musulmana, lui cattolico – per tutto quello che mi ha donato e per l’insegnamento prezioso che scaturisce dal suo racconto. Ho sempre avvertito in lui la sensazione che io potessi capire, che potessi essere partecipe del suo dolore. Come se io, figlia di questa terra condannata alla sofferenza, avessi dentro di me il codice per decifrare e per condividere il senso profondo della sua tragedia personale al di là della sua impeccabile compostezza esteriore. Credo che Gerusalemme abbia aiutato Gigi nell’elaborazione del suo dolore; nel luogo in cui tutti si sentono vicini a Dio e manifestano con la massima tensione spirituale le proprie paure e le proprie speranze, Don Gigi ha certamente aperto il suo cuore ed ha provato il sollievo che la sua fede e la sua purezza d’animo meritano. Quello che forse non sapeva, o che non aveva sperimentato per diretta conoscenza è che nelle comunità colpite quotidianamente dal dolore aumenta enormemente la sensibilità degli individui e si trova una capacità insospettata di abbracciare gli altri e di sentirsene abbracciati. A Gerusalemme nel cuore degli uomini c’è un contatto speciale con l’altro, c’è la sorpresa di vedere che il proprio sentimento privato viene accompagnato e partecipato da un’intera città. Qui si incontrano le vite di chi arriva in pellegrinaggio spinto dalla speranza della preghiera e di chi sopporta da sempre le contraddizioni della città santa: tante storie diverse che hanno come elemento di comunione il segno amaro del destino e l’attenzione verso gli altri. Gerusalemme, sotto questo aspetto e non solo, rimane immutabile nel tempo come se il suo compito fosse quello di ammonirci sulla fragilità e sulla caducità umana, mentre il mondo moderno è tutto proteso alla ricerca di nuove conquiste, di nuovi paradisi artificiali da cui sia bandita la sofferenza ed in cui sia quindi emarginato, sia pure con discrezione, anche chi la porta con sé. Per fortuna le anime semplici e belle posseggono una grande capacità di sentire che può rimanere intatta anche nella ricchezza e nel progresso e Don Gigi ce ne offre ogni giorno preziosa testimonianza. 

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