L’Iran, il futuro
e il voto popolare

In Iran il voto popolare alla fine conta. Nonostante l’intervento preventivo del Consiglio dei Guardiani - l’organismo che vaglia i candidati alle cariche pubbliche - che aveva escluso buona parte dei candidati riformisti e anche molti moderati, sostenitori del presidente Hassan Rohani e della sua politica del dialogo.

Il 26 febbraio gli elettori hanno rinnovato il parlamento nazionale e l’assemblea degli esperti, il consiglio che ha il compito di eleggere il nuovo leader supremo della Repubblica islamica: sconfitti gli ultraconservatori, i riformisti hanno conquistato 92 seggi, gli indipendenti 44. Insieme potrebbero formare una nuova maggioranza in favore delle riforme politiche, economiche e sociali. Dopo l’accordo sul nucleare e la revoca delle sanzioni europee e americane, una buona notizia per la pace e la lotta al terrorismo internazionale dall’Iran sciita, il tradizionale avversario dell’Arabia Saudita sunnita nel mondo musulmano. L’Iran, benché esista il controllo religioso, si può considerare un Paese tendenzialmente democratico. Non così l’Arabia Saudita: il ricco regno del petrolio è allineato alla politica estera degli Stati Uniti e dell’Occidente ma, nel contempo, è integralista e finanziatore di movimenti fondamentalisti come quello della Fratellanza musulmana.

In Iran le religioni ebraica, cristiana e zoroastriana hanno seggi riservati in parlamento, in quanto ufficialmente minoranze religiose maggiori. In Arabia Saudita, monarchia assoluta e uno dei pochi Paesi al mondo privi di un parlamento, la libertà religiosa è di fatto inesistente: impossibile per i non musulmani edificare luoghi per i culti, proibito il possesso della Bibbia e di altri oggetti religiosi, come la croce. L’Occidente deve interrogarsi su quale sia il giusto alleato per la lotta al terrorismo di matrice islamica.

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