Addio al «pirata»
Ottavio Missoni

Un pezzo del made in Italy che se ne va. Un pezzo di fili intrecciati e multicolore che raccontano una vita avventurosa e appassionata, fatta di moda e non solo. Ottavio Missoni è morto nella sua casa di Sumirago.. Aveva 92 anni.

Un pezzo del made in Italy che se ne va. Un pezzo di fili intrecciati e multicolore che raccontano una vita avventurosa e appassionata, fatta di moda e non solo. Ottavio Missoni è morto nella sua casa di Sumirago, nel Varesotto, nella notte tra mercoledì e giovedì: aveva 92 anni ed era stato dimesso nei giorni scorsi dall'ospedale dove era stato ricoverato per uno scompenso cardiaco. Un po' artista, un po' pirata, come piaceva raccontare a lui: un suo avo fu il «capitano Misson», che tra la fine del '600 e l'inizio del '700 con il suo vascello solcava i mari battendo una bandiera con il motto «Libertà».

Gli somigliava, si direbbe, data la sua vita avventurosa: visse a Zara tutta la giovinezza, fino al 1941. Durante la Seconda Guerra mondiale aveva combattuto in Egitto ed era stato fatto prigioniero dagli Alleati. Dopo quattro anni in un campo africano era tornato in Italia nel '46, a Trieste però, perché la sua Zara ormai era stata distrutta dai bombardamenti angloamericani. Il paese però che meglio racconta lo stilista Missoni è Sumirago, dove la sua famiglia lavora e vive dal 1969. «Siamo "casa e bottega"» diceva Ottavio, lui che amava la sua villa adiacente all'azienda, circondata da ettari di terra, da piante e fiori, sua grande passione. Lui non ne faceva mistero e sulla scrivania, spostando tessuti e pennarelli, saltavano fuori manuali di botanica, libri di giardinaggio. Anche da lì, allora, proveniva il suo mondo di sfumature, quel giocare con i colori in modo tanto impensabile quanto armonioso. E riconoscibile, da tutto e da tutti, talmente innovativo che fece esplodere di soddisfazione anche la grande Diane Vreeland, direttrice di Vogue America, che esclamò vedendo i suoi capi: «Ma allora il colore esiste davvero!».

Il suo cammino nella moda è iniziato ufficialmente nel 1953, l'anno del matrimonio con Rosita e quello di fondazione dell'azienda Missoni, che all'inizio era un piccolo laboratorio nel seminterrato della loro abitazione a Gallarate. «Da ragazzo vivevo a Trieste e la zia di un amico aveva una macchina per fare la maglia - raccontò una volta -: ero affascinato dal filo e dagli aghi, dalla trama e dall'ordito, dal gioco di intrecci che dava vita al tessuto. Già alla fine degli anni '30 abbiamo aperto una piccola una società: io e questo amico presidenti, e due macchine per fare la maglia. A quel punto il problema era chi avrebbe fatto l'operaio…». A Ottavio Missoni piaceva raccontare, un fiume in piena di aneddoti, di storie di famiglia. Dove «la Rosita», come la chiamava lui, è sempre stata al centro di ogni ricordo. Perché Ottavio e Rosita Missoni sono stati prima di tutto una coppia, una squadra vincente, e celebre è la frase di Rosita: «La prima volta che vidi Ottavio, lo vidi vincere». Il riferimento è al 1948, alle Olimpiadi di Londra. Ottavio era già stato campione italiano sui 400 metri nel '38 e a Vienna campione mondiale studentesco; in Inghilterra era finalista nei 400 a ostacoli dove si classificò sesto. Rosita era andata a vedere la corsa insieme alle sue compagne di classe: da quel giorno hanno creato un impero. Colpito di recente da un grande dolore: il 4 gennaio scorso nei cieli di Los Roques e Caracas è scomparso il bimotore su cui viaggiavano anche Vittorio, figlio maggiore di Ottavio e Rosita, e la moglie Maurizia. Una vicenda che ha portato grande sconforto a Sumirago e che ha colpito Ottavio Missoni, da sempre schivo ai media e a quella patina glamour che avvolge il sistema moda: «Noi non nasciamo come "moda", ma come artigiani» ha sempre ribadito. A lui interessava la famiglia e la sua maglia. E il colore, raccontato con curiosità, in modo rivoluzionario.

Proprio i Missoni negli anni '60 e '70 sono riusciti a rompere certi schemi della moda: «Nel '67 - amava raccontare lo stilista - fummo chiamati per la prima volta a Palazzo Pitti, a Firenze. A quei tempi non c'erano le prove-abito e all'ultimo momento Rosita si accorse che le modelle non avevano l'intimo abbinato alle leggerissime bluse in lamè: decise quindi di mandarle in passerella senza nulla sotto, e la luce dei riflettori creo un effetto trasparenza… Lo scalpore fu inevitabile, in quegli anni che non conoscevano ancora il "nude look": venimmo presi per eccentrici ed estrosi, gente un po' osé. L'anno dopo Pitti ci scartò, considerandoci troppo trasgressivi». E un ricordo, di quell'ufficio a Sumirago, dalle grandi vetrate e dalle alte betulle fuori, torna alla mente: nella grande stanza di Ottavio Missoni tante vecchie fotografie, ritagli di giornali, schizzi di colore, stoffe su stoffe, ma nessun modello di abito: «Quello non è il mio mestiere» aveva detto con un'aria malandrina, i capelli spettinati e il sorriso grande. Poi aveva aggiunto in dialetto, da spirito libero: «Mi, faso la maia». E la sua maglia, i suoi colori e fantasie, sono sempre stati straordinariamente fuori dalle righe.
Fabiana Tinaglia

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